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Questo non è il nuovo album d’inediti degli Annuals. Al contrario, si tratta di una raccolta piuttosto varia, che assomma b side e brani tratti dal loro ultimo disco “Such Fun” (2008), quest’ultimo di esclusiva pubblicazione statunitense. È chiaro quindi l’intento, da parte del collettivo, di farsi largo anche in Europa, area per ora marginalmente interessata al successo che oltreoceano stanno ricevendo gli Annuals.
Si son già sprecati parecchi paragoni con i più noti Arcade Fire. E in effetti le similitudini sono numerose ed estese, soprattutto riguardo al lato più melodico ed elaborato del suono della band qui recensita, in cui fortissimi sono gli echi del baroque pop contemporaneo. C’è anche dell’altro, però: qua e là affiora la spensieratezza dei Vampire Weekend, come nell’incipit di “Eyes In The Darkness” o nei ritmi di “Hardwood Floor” e di “Sweet Sister” (gli Annuals rimangono comunque una compagine più compresa e ‘adulta’); fanno capolino gli Architecture In Helsinki nei cori e nei fiati di “Holler And Howl”; altrove si assiste a citazioni hip hop e dance inserite in un contesto di folk rock orchestrale (The Giving Tree), oppure riff blues si perdono in strani melange di pop sinfonico corretti soul (Hair Don’t Grow). In ogni caso, a colpire è soprattutto il crescendo epico di “Hot Night Hounds”: una frase di piano ripetuta introduce un climax ascendente che media fra gli Who di “Baba O’Riley” (sentire il finale) e un piglio alla U2 (specie sotto l’aspetto vocale), in un continuo incalzare ritmico. “Hot Night Hounds” è uno dei brani tratti da “Such Fun”, ed è probabilmente il migliore della raccolta, insieme a “Loxstep”, strambo incrocio indie prog con tanto di tastiere che simulano fanfare medievali.
La raccolta, in sé, non è malaccio. Certo paga lo scotto di apparire più un patchwork di stili e modi differenti piuttosto che un’opera unitaria, e proprio sotto questo punto di vista il gruppo del North Carolina deve migliorare: la bravura nell’assimilare mezzo mondo dell’indie d’oggidì è chiara, così come la perizia esecutiva. Tuttavia il ‘troppo’ (di citazioni, di espressioni sonore, di timbri, di stratificazioni, etc.) che viene dispensato in queste 11 canzoni rischia di risultare troppo poco a lungo andare. Insomma, tutto dipende da come gli Annuals si giocheranno le loro carte in futuro. Potremmo sentirne parlare spesso. Per ora, “Count The Rings” è grazioso ma di non sufficiente spessore per permetter loro di sfondare davvero.
Stefano Masnaghetti