I Manchester Orchestra avevano promesso un album più heavy, in cui ogni traccia fosse un fendente dritto in petto, e il quintetto statunitense non ha disatteso le aspettative, presentandosi con un quarto lavoro in studio che si delinea come il loro sforzo più riuscito. Abbandonate le atmosfere più trasognanti e i toni multisfaccettati del precedente “Simple Math”, ogni brano di “Cope” è di per sé un potenziale inno squarciapetto, che trascina in un valzer dell’empatia contemporaneo grazie alle liriche di Andy Hull, spesso criptiche, che si adattano alle realtà individuali con una naturalezza spiazzante che si può solo attribuire al talento compositivo.
La batteria che non trova sollievo, i riff intricati, la ritmica stringente, le melodie spaccacuore e un’oscurità che striscia e si infiltra tra le crepe sono gli elementi fondamentali di un apparato ciclonico, nell’ormai attestato stile “riempi-arena” dei Manchester Orchestra, bilanciato dal peculiare timbro vocale di Hull, un guanto di velluto per stringere un rovo spinoso, che si tramuta in puro strazio nelle parti vocali urlate. Hull non è certo uno scrittore da favolette a lieto fine, ma in “Cope” permea una forte determinazione e volontà di affrontare le difficoltà in positivo, in una meticolosa ricerca della via migliore per se stessi, un assetto mentale che segna proprio la genesi del disco e ne rappresenta la morale: senza un’etichetta e con una sezione ritmica completamente da rinnovare, ricalcificatasi nella possente ossatura di Andy Prince (basso) e Tim Very (batteria), i Manchester Orchestra sono riemersi da un tunnel pericoloso con un nerbo più robusto, presentandosi con un lavoro più maturo e che si espande verso nuovi orizzonti.
L’intensità sonica del disco non cede di un passo traccia dopo traccia, talvolta ammicca al britpop (“The Mansion”), recupera la schematica semplicità del pop-punk di inizio millennio (“The Ocean”), si dirama in riff massicci e complessi (“Trees”), trovando solo un breve momento di respiro (“Indentions”) in un prodotto altrimenti interamente compresso. Proprio qui emerge la forza e la debolezza di un disco che balla sul rischioso ciglio dell’omogeneità: il susseguirsi di power chord rischia talvolta di fluire inosservato ad un ascolto distratto, amalgamando le undici tracce di “Cope” in un unico calderone primordiale, seppur comunicando tutta l’energia del caso. È solo ad un ascolto più ponderato che si coglie tutta l’intensità di un album composto come una somma di strati cui è necessario accedere per gradi: un peccato di immediatezza che viene compensato una volta superato l’inceppo iniziale, lasciando non solo i semi delle canzoni a crescere e fiorire nella propria testa ma anche con una vorace curiosità di esplorare questo nuovo aspetto dei Manchester Orchestra.
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