Neil Young – Storytone

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Stupirsi dei repentini cambi stilistici di Neil Young, per chi conosce minimamente la carriera del grande canadese, è totalmente insensato. Chi lo ama – e per fortuna, ancora nel 2014, sono in molti – ne accetta tutte le bizzarrie e le più improbabili derapate sonore. Già oltre trent’anni fa l’autore di “Harvest” aveva scandalizzato tutti pubblicando, in una manciata di mesi, due dischi diversissimi come “Trans”, imbevuto di suoni synthpop, e “Everybody’s Rockin'”, brevissimo e purissimo distillato rockabilly. Oggi compie un’operazione simile: dopo “A Letter Home”, raccolta di cover per voce, chitarra, armonica e grammofono gracchiante, arriva “Storytone”, album in cui si avvale dell’aiuto di un’intera orchestra sinfonica in ben sette brani su dieci. Si potrebbe pensare ad uno scherzo: eccolo là, il geniale mattoide, che aggiunge un articolo alla sua mercanzia di stramberie. No, non è così. Anzi, l’impresa sinfonica si rivela persino più riuscita del lo-fi quasi manieristico dell’LP precedente (anche se la versione di “My Hometown” di Springsteen rimane da lacrime).

Pur non essendo un capolavoro del calibro di “Psychedelic Pill”, il nuovo cd (doppio nella deluxe edition, in cui vengono riproposte le stesse composizioni in versione solistica) si lascia ascoltare amabilmente, eccezion fatta per un paio di cadute di tono. Neil non si lascia tentare troppo dal potenziale tronfio e stucchevole che l’orchestra sinfonica reca in sé (errore in cui molti musicisti rock sono caduti in passato, e che inficia persino un paio di pezzi di “Harvest” stesso), anzi utilizza per lo più lo sterminato ensemble con parsimonia. In “Plastic Flowers” gli archi e il piano sottolineano efficacemente una melodia tipicamente Young-iana, mentre la cadenza e i giochi strumentali di “Who’s Gonna Stand Up?” diffondono un aroma quasi medievale, con i Dead Can Dance dietro l’angolo. È pure graziosa la leggerezza che si spande da “Tumbleweed”, mentre la sovrapposizione tra folk e sinfonismo di “When I Watch You Sleeping” e “All Those Dreams” (la prima vanta un nettissimo intro a base di chitarra acustica e armonica) risulta incredibilmente riuscita. Più dolciastre e legate a un tardo romanticismo Hollywood-iano di cartapesta sono “Glimmer” e “I’m Glad I Found You”, episodi trascurabili seppur formalmente corretti. La vera caduta di stile è lo swing per big band alla Duke Ellington, in cui ascoltiamo Young improvvisarsi crooner fuori luogo. A rialzare il livello ci pensano due numeri da fuoriclasse quali “I Want To Drive My Car” e “Like You Used To Do”: niente orchestra, piuttosto una spericolata fusione di blues elettrico, rhythm and blues e fiati jazz che si legano benissimo l’un con l’altro.

Strumentazione a parte, “Storytone” è una collezione di brani in cui uno dei più importanti musicisti degli ultimi cinquant’anni rivela l’ennesimo suo nuovo volto, senza perdere nulla in quanto a riconoscibilità di stile. E la voce, a quasi settant’anni, è rimasta praticamente intatta. Lungi dall’essere nostalgico, Neil Young vuole e sa ancora meravigliare.

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