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L’uscita di un disco dei Baustelle porta con sé, inevitabilmente, il consueto strascico di polemiche, a rimarcare la dimensione ‘pop’ che ormai la band ha acquisito a pieno titolo. Spesso tali polemiche hanno ben poco a che fare con la musica in senso stretto, ma al contrario investono la totalità dell’immagine che il trio si è costruita nel corso degli anni. E, soprattutto, si polemizza su Bianconi e sui suoi testi. La fazione avversa accusa il leader del gruppo toscano di essere eccessivamente snob, eccessivamente spocchioso, di scrivere canzoni eccessivamente criptiche e pretenziose, le quali, dietro la loro aura di raffinatezza ‘maledettista’, nascondono scivoloni stilistici, forzature, qualunquismo a piene mani e grandi banalità camuffate con paroloni e ridondanze varie. Chi li adora, invece, ne sottolinea la maggior qualità rispetto alla media della musica leggera italiana e afferma che le pose di Bianconi e soci vanno lette attraverso la lente deformante del sarcasmo e dell’ironia. Difficile stabilire chi abbia ragione; d’altra parte i Baustelle stessi non fanno nulla per chiarire queste loro ambiguità di fondo. Li si ama o li si odia, insomma. Difficile, quasi impossibile che risultino indifferenti. E questo fa capire quanto siano radicati nella società italiana e quanto riescano a toccare nervi scoperti della sensibilità comune. Almeno questo è innegabile.
Però qui siamo in sede di recensione, e qualche parola sul disco è doveroso spenderla. Ispirato dal libro omonimo di Elémire Zolla, “I Mistici Dell’Occidente” segna una svolta piuttosto netta rispetto al suo predecessore, “Amen”. Laddove quest’ultimo era l’album più ‘sperimentale’ e complesso dei Baustelle, pesante tanto nei testi (persino più del consueto) quanto nella musica, che azzardava persino qualche timida soluzione progressive, il nuovo disco è invece un tentativo di tornare alle atmosfere e alle soluzioni degli esordi, più melodiche e immediate. Si rivedono gli squarci indie – pop (oggi ovviamente più pop) dei primi due lavori, soprattutto quelli de “La Moda Del Lento”; ma ancor più marcata è la volontà di rinverdire i fasti della loro opera chiave, quel “La Malavita” che li proiettò oltre il ristretto circolo del pubblico indie e li sdoganò al grande pubblico. E allora i richiami alla musica italiana degli anni Sessanta/Settanta si fanno innumerevoli, basti pensare all’organo che introduce il primo brano, “L’indaco”, così come al flauto che lo chiude, oppure alla melodia chitarristica finale de “Le Rane”; le strutture delle canzoni ritornano più snelle ed essenziali, focalizzate sul ritornello di facile assimilazione, come accade ne “Gli Spietati”, non a caso scelta come singolo. Quello che funziona maggiormente sono proprio le due voci soliste, sia quella di Francesco sia quella di Rachele: ormai hanno raggiunto un’identità ben precisa, definita. Nella title – track, ad esempio, Bianconi innesta il suo timbro à la De Andrè su accordi di chitarra acustica che sembrano scritti da Branduardi, prima che archi e fiati spianino la strada a un crescendo tipicamente ‘baustelliano’, non privo però d’infiltrazioni morriconiane; nella conclusiva “L’Ultima Notte Felice Del Mondo” la Bastreghi, invece, canta con giusta intonazione un testo fra il disperato e il malinconico.
I testi, appunto. Da questo punto di vista non ci sono novità sostanziali, e chi conosce i Baustelle continuerà ad amarli o a disprezzarli, senza vie di mezzo. Nel complesso risultano meno ‘politici’ rispetto a quelli di “Amen”, ma lo stile rimane immutato. Personalmente sottolineo solo che, effettivamente, qualche caduta c’è. Come il verso “Ossi di seppia e bidet” su “Follonica” (si poteva citare Montale in modo migliore), oppure ancora quasi tutto il testo di L’Estate Enigmistica”, che mostra velleità ‘esistenzialiste’ espresse piuttosto goffamente. Peccato, perché le rare volte in cui Bianconi forza di meno la mano i risultati sono migliori anche liricamente: è il caso della quasi autobiografica “Le Rane”, quasi sempre essenziale e meno ampollosa, che nei versi finali si fa quasi commovente. In questo senso “La Malavita” è stato nettamente il loro miglior lavoro, quello in cui poche volte i testi scivolavano nell’intellettualodie e nel gratuitamente criptico.
Concludendo e tornando a parlare strettamente di musica, c’è da rilevare che il ritorno al passato è riuscito a metà, soprattutto a causa di una produzione, quella di Pat McCarthy (Madonna, U2, REM), non perfettamente a fuoco (strano ma vero, almeno alle mie orecchie). Spesso la voce è registrata troppo bassa, e in alcuni casi gli archi finiscono per rivelarsi troppo zuccherosi e opprimenti, vedi ad esempio “San Francesco” e il singolo stesso. Insomma, “I Mistici Dell’Occidente” non ha la stessa freschezza degli esordi, tanto meno di “La Malavita”, che rimane il loro miglior album anche per qualità sonora. In ogni caso, chi non li sopporta continuerà a non sopportarli, chi li idolatra continuerà a farlo. Ma questi ultimi non si aspettino il loro capolavoro, semplicemente un buon disco.
Stefano Masnaghetti