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Solo un anno fa Neil Hannon, in compagnia di Thomas Walsh dei Pugwash, si dilettava ad allestire un ‘concept – album’ sul gioco del cricket, attraverso la sigla The Duckworth Lewis Method. Facendo comunque sentire, anche in quel caso, la sua impronta artistica e le sue manie da dandy vittoriano catapultato in un’epoca non sua. Il retro pop scaturito da quella collaborazione, insomma, non giungeva inaspettato, tanto che i fan dei Divine Comedy non avranno certo faticato nell’apprezzarlo (e Thomas si è rivelato il compagno ideale per un’operazione simile).
Archiviata la pratica, Neil rispolvera la sua creatura più famosa e dà un seguito a “Victory For The Comic Muse”, album uscito ormai quattro anni orsono. Ed è subito un profluvio di atmosfere demodé, rimandi a vaudeville e musical (tra l’altro, pare che il musicista ne abbia in programma uno vero e proprio per fine anno), pop orchestrale cesellato fra ricami di archi e insistiti arpeggi pianistici, riferimenti letterari e qualche tocco di humor britannico (cfr. i testi di “The Complete Banker” e “Assume The Perpendicular”).
Si tratta, insomma, del classico stile messo a punto da Hannon nel corso dell’ultimo decennio: baroque pop lievemente aristocratico e che rappresenta il contraltare ‘colto’ e ‘middle class’ agli inni da pub della ‘working class’ inglese cantata da Oasis e Blur e dal cosiddetto brit pop tutto. “Bang Goes The Knighthood” è, in questo senso, l’unico sbocco possibile che il suono di “Absent Friends” e di “Victory For The Comic Muse” potesse prendere. Ancora più passatista e nostalgico, se vogliamo. Nel complesso, un po’ meno vitale e riuscito rispetto ai suoi illustri predecessori, anche se la bravura dell’artista non è in discussione e l’opera è comunque gradevole.
Al nuovo cd manca, infatti, un po’ di quell’eclettismo che in passato rendeva i lavori dei Divine Comedy qualcosa di speciale. Oggi, invece, Neil si preoccupa di focalizzarsi su di un’unica direzione, quella del musical ridotto al formato ‘pop song’ più alcune variazioni sul tema, dal crooning jazzato di “Have You Ever Been In Love” al calypso di “Island Life”, passando per il lied finemente orchestrato di “When A Man Cries” e la narrazione estetizzante della title – track. Il santino di Scott Walker è sempre ben in vista (d’altra parte i due sono anche grandi amici), ma mancano molti altri elementi non meno essenziali: i tocchi retrofuturisti che richiamavano Bowie, Eno e Krafwerk sono spariti, così come alcuni bagliori di new wave e alcune soluzioni occhieggianti al progressive e al minimalismo. È rimasta solo la voglia di rivestire di preziosi arrangiamenti sinfonici quei motivetti easy listening che andavano forte nell’Inghilterra degli anni Cinquanta, e alcuni ritmi skiffle ingentiliti dall’orchestra testimoniano questa volontà.
“Bang Goes The Knighthood” rimane un buon disco, in cui il gusto per il particolare raffinato e per l’arrangiamento prezioso trionfano sul contenuto. C’è un po’ troppo mestiere e un po’ poca ispirazione; però bisogna anche tenere in considerazione che è difficile ripetere exploit come quelli ai quali Hannon ci aveva abituati con gli ultimi due album, probabilmente inarrivabili. Chi ama la musica composta dal dandy nordirlandese non avrà problemi a lascarsi cullare da queste sue nuove dodici canzoni, ma non si aspetti il suo terzo capolavoro consecutivo. Rischierebbe di rimanere deluso.
Stefano Masnaghetti