È apparsa contemporaneamente su ben tre copertine di importanti riviste musicali italiane, cosa che non ha solamente suscitato qualche imbarazzo e qualche risatina, ma ha avuto lo strano effetto collaterale di infondere ingiustificata diffidenza nei suoi confronti. Ha precedentemente pubblicato un disco, “Love this Giant”, e affrontato il conseguente tour con un gigante della musica rock come David Byrne. È giunta ora alla pubblicazione del quinto disco della sua brillante carriera, disco che porta il suo nome, disco acclamatissimo dalla stampa. Stiamo parlando di Annie Clark, in arte St. Vincent.
Artista complesso, raffinato nella scrittura e nella produzione, e di cui resta piuttosto difficile fornire un’adeguata ed esauriente descrizione. La sua musica sembra rientrare nell’interessante definizione di Art-Rock, sebbene sia palesemente Pop. Il motivo? St. Vincent è in grado di raccogliere i moltissimi stimoli provenienti dal multiverso musicale e rielaborarli in una forma mai banale, profondamente ricercata nei suoni e nelle melodie, senza mai perdere il contatto con la necessità di esprimere un gusto raro e tutto sommato convincente. Anche quel suo rinnovato look da principessa un po’ dark e molto glam ricorda d’altronde molte rockstar iconoclaste come Bowie o Bjork.
E allora com’è questo suo acclamato lavoro? Alla base c’è naturalmente il ritmo, essenzialmente groovy e funky, costruito per indurre al movimento, al ballo. E poi c’è soprattutto il lavoro sui suoni, davvero notevole, originale ed elaborato, come testimoniano l’open-track “Rattlesnake”, o “Birth in Reverse” ed “Every tear desappears”. Il timbro dei synth è la soluzione artistica di questo album. Vintage e moderni, puliti e distorti, ritmici o avvolgenti: qualsiasi sia la soluzione scelta non ha importanza, poiché l’effetto è di immediata efficacia. Lavorare con David Byrne, d’altronde, deve inevitabilmente portare ad una decisiva maturazione, senza dimenticare che Annie padroneggia una tecnica chitarristica di assoluto carattere. Ascoltare, per credere, “Huey Newton”, con quel suo ricco finale che palesa la fine commistione di generi, epoche, suoni. E poi c’è la sua voce, delicata e un po’ trascinata, di carattere, tecnica quanto basta per esprimersi con la giusta personalità.
Eppure qualche nota dissonante in un quadro così animato, curioso e pieno di rilievi c’è: l’abilità di attingere allo sterminato panorama musicale non riesce sempre a tradursi in una rielaborazione del tutto personale. Quel che voglio dire è che alcune soluzioni melodiche o compositive sembrano prese di sana pianta da altri. Abbiamo già citato Bowie o Bjork, e i Talking Heads; ma viene in mente anche Sinead O’Connor quando ascoltiamo “I Prefer your Love”. Ombre di plagio? Semplici citazioni? Prestiti letterari? Non lo sappiamo, e poco importano: il valore del disco non è scalfito. Perché questo è un disco pop di qualità, figlio del Pop di qualità. I conti tornano.
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