Premetto che non ho mai avuto a che fare con un’estetista, quindi non so che sensazione si provi ad aspettare che qualcuno ti strappi via la ceretta di dosso. O almeno non lo sapevo fino a prima di questa recensione che ho rimandato fino allo sfinimento. Perché ai The Kooks, alla fine, ci ero affezionato. Perché in qualche modo sono loro che ci hanno insegnato come rimorchiare a sedici anni con qualcosa che non fosse “La Canzone Del Sole”. Perché “Naive” era il giusto compromesso per far vedere che non ascoltavi solo musica pop ma nemmeno che eri il chiusone post-punk di “Love Will Tear Us Apart”. E perché erano gli ultimi ad essersi conservati quasi integri da quell’ondata britannica della prima decade degli anni Duemila.
Poi, però, è successo qualcosa. Un qualcosa che si subodorava già da “Junk Of The Heart” che sì, a dispetto di quello che ci ricordiamo, era un album talmente mediocre che si canticchia giusto il singolo omonimo. L’aria che si respirava, già nel 2011, era quella della toilet d’aereo in cui Pritchard ne aveva composto le basi, non più quella da sobborghi inglesi con tutti i tè annessi e connessi. E oggi, a distanza di tre anni, la situazione sembra addirittura peggiorata.
In “Listen”, infatti, le tracce scorrono in modo talmente anonimo che l’unica cosa che rimane è il pensiero di cambiare a quella dopo sperando in meglio. Speranza che viene delusa, se non per i singoli “Down” e “Around Town” che portano un po’ di novità ad un ambiente che di britannico ha ben poco. Le potenzialità si sentono anche in qualche tocco di stile qua e là, che però viene immediatamente oscurato dall’inconsistenza del resto. La parte ritmica delle canzoni, in particolar modo, sembra talmente artificiosa da risultare il frutto di un software più che il prodotto della mente dei ragazzi che anni fa conoscevamo.
Nemmeno la ballata “See Me Now” riesce nell’intento di far tirare fuori dalla tasca qualche accendino, come invece accadeva ai tempi di “Seaside”. Quello che spinge ad ascoltare l’album fino alla fine è forse solo il ricordo proprio di quei periodi, che riecheggia ancora nella voce del cantante. Che forse, nella produzione, ha cercato un’evoluzione, ma di sicuro non l’ha trovata. Almeno non in modo piacevole. “This is evolution” dici tu in “Are We Electric”, Pritchard. “This is devolution”, diciamo noi.