A distanza di cinque anni da “Abnormally Attracted To Sin”, lustro ricco di sorprese, dalla parentesi classica di “Night Of Hunters” e “Gold Dust”, usciti via Deutsche Gramophone, etichetta madre del genere, alla realizzazione per il British National Theatre del musical “The Light Princess”, tratto dall’omonima fiaba di George MacDonald, Tori Amos è tornata con un album di inediti: “Unrepentant Geraldines”.
Uscito il 13 maggio su Mercury Classics e anticipato dal singolo “Trouble’s Lament”, con cui la Amos va ad affacciarsi con discrezione ed eleganza sull’odierna scena folk rock, l’album, disponibile in versione standard e deluxe, contenente la bonus track “Forest of Glass”, raccoglie quattordici pezzi – «selfies sonori segreti» come li ha definiti Tori – nati durante il suo viaggio in universi musicali lontani e custoditi fino all’attuale ritorno al pop rock.
Un lavoro che ruota, come dichiarato dalla cantautrice statunitense, attorno al tema unificante dell’influenza da sempre esercitata su di lei dalle arti visive – dalla fotografia di Diane Arbus che ha ispirato l’opening track “America”, alle “16 Shades of Blue” di Paul Cézanne, alla litografia di Dante Rossetti “The Maids of Elfen-Mere”, fino all’acquaforte di Daniel Maclise “Geraldine”, a cui si deve la genesi dell’album – e lo fa anche musicalmente, nella misura in cui la narrazione è spesso affidata alla parte strumentale, trattata dalla Amos in maniera estremamente visiva, fino a diventare imitativa in più di un’occasione nel corso dell’album. Tuttavia, “Unrepentant Geraldines” è nella sua essenza il concept dei concept e racchiude nel titolo la propria chiave di lettura: 14 tracce per altrettanti album, un viaggio sonoro che ribadisce senza ripensamenti le scelte di una carriera intera, illuminato dalla libertà e dall’onestà con cui Tori Amos ripropone, rifinendole, le molteplici sfumature della propria cifra stilistica.
Pianoforte e voce sono, assieme alle chitarre, al centro di questo lavoro che si apre col delicato lirismo di “America”, snodandosi elegantemente attraverso l’interessante dialogo tra chitarra e pianoforte di “Trouble’s Lament” e la raffinata scrittura di pezzi come “Wild Way” e “Weatherman”, dove si sente tutto il tocco della Amos migliore, senza tralasciare la parentesi dal sapore vagamente rinascimentale di “Wedding Day”. “16 Shades of Blue”, pezzo attraverso cui passa uno dei temi forti dell’album, riassumibile nel verso «There are those who say I’m now to old to play», ossia quello della difficoltà del trovare un proprio equilibrio in ogni stagione della vita, è un capolavoro di rarefazione armonica, con il piano che, sporcato qua e là dall’intervento del basso, puntella il pezzo con un’essenziale serie di accordi. Seguito dalla fiabesca “Maids of Elfen-Mere”, il brano anticipa quello che è forse da considerare il momento più basso dell’album: “Promise”. Non è per la presenza vocale della figlia undicenne Natashya, lei poverina il suo lo fa, ma la scrittura è dozzinale, prevedibile e questo non è da Tori.
La beatlesiana “Giant’s Rolling Pin”, benché non di facilissimo ascolto, risolleva subito le sorti di un album, che dopo la smielata “Selkie” troverà i suoi due episodi migliori nella title track, pezzo inconfondibilmente amosiano, ma che nel refrain ricorda molto da vicino i Police, e in “Oysters”, il colpo di coda del fuoriclasse che da solo varrebbe l’album intero. La struttura sperimentale di “Rose Dover” e la delicatezza di “Invisible Boy” chiudono un lavoro coraggioso nel suo essere attuale, intimo ed universale allo stesso tempo e nel quale Tori Amos si espone, scendendo in prima linea a difesa della sua arte e «di chi non chiederà scusa per le proprie azioni e convinzioni», come si evince dall’attitudine espressa nella foto di copertina, realizzata da Amarpaul Kalirai, con l’artista in primissimo piano, a braccia aperte davanti ad una parete animata da colori e parole, nella mano destra un pennello, la sinistra imbrattata di vernice: impenitente.