La cosa più divertente del nuovo disco di Vasco Rossi, risiede nel leggere le recensioni di Sono innocente sulle testate più note e generaliste. Si scovano gemme tipo “sonorità gotiche alla Black Sabbath”, “blues minimalista”, “schitarrate graffianti” e anche “brano dal grande impatto metal-rock”. Dev’essere stato un esercizio faticoso inventarsi qualcosa sui brani pesanti (specialmente dopo le spiegazioni a riguardo rilasciate da Guidone Elmi durante la presentazione della release) del cd per chi è abituato a incensare le nuove star dalla durata trimestrale (se va bene) uscite dai talent, piuttosto che i tormentoni del pop trash americano tipo Miley “no ma va che a parte tutto canta bene” Cyrus e baldraccume assortito.
Mi immagino anche le frasi dei metallari e/o degli alternativoni che dicono “Oh ma questo è ancora vivo”, “Solito finto rock all’italiana”, “Colpa sua se l’underground non è valorizzato” e via dicendo. Sento anche qualche bombazza di chi si dice amante tradito e vecchio appassionato di Vasco: “Che testi osceni”, “Ma che produzione è”, “Per me è finito nel 1993″…il tutto mentre battono il piedino e si sorprendono di quanto possa spaccare ancora il culo un disco del Rossi nel 2014.
Vasco ha oramai una certa età, di studio album ne ha messi in fila 17, ha fatto la storia della musica italiana e non deve dimostrare più niente a nessuno. Può invece legittimamente divertirsi, cantare pezzi che ha voglia di cantare e proporre musica che gli va di fare. Se poi consideriamo che nemmeno tre anni fa la sua carriera (per non parlare delle sue condizioni di salute tutt’altro che buone) era praticamente finita, fa specie ritrovarsi in cuffia un lavoro così convinto, determinato e onesto come il qui presente “Sono innocente”.
L’album paga qualche pezzo lento di troppo (sceglietene voi un paio tra “Accidenti come sei bella” / “Guai” / “Aspettami”) e il fatto di contenere delle canzoni che conosciamo oramai da mesi. Per il resto le sprangate hard rock dei due brani d’apertura, la produzione ai confini con le modernità rock americane, l’impatto di chitarra-basso-batteria, l’istrionica “Il blues della chitarra sola” e, soprattutto, “Quante volte” e le due bonus track conclusive risultano essere i momenti migliori di un ellepì tutt’altro che scontato e da liquidare in fretta. Certo, si poteva asciugare qualche momento, evitare di appesantire con sovrastrutture elettroniche determinati passaggi e osare un po’ di più sulla scia del blues e dell’ape regina. Soprattutto sarebbe stato meglio pensare a una disposizione dei brani nella tracklist migliore, che evitasse dei tonfi di tensione pazzeschi dopo pochi minuti dall’inizio dell’ascolto (“Come Vorrei” e “Guai” di fila sono letali in questo senso).
Detto tutto questo, siamo a discutere su un lavoro più che degno, che presenta la produzione più aggressiva di sempre per il Blasco e che, se ce ne fosse bisogno, certifica ulteriormente lo status di intoccabile raggiunto da una delle figure più importanti per la musica italiana di ogni tempo. Non male per un vecchietto di 62 anni…