Devo ammettere che non ho mai seguito gli Editors così appassionatamente da scalpitare per l’uscita del loro nuovo album In Dream. Non sono una fan della prima ora, li ho sempre vissuti di contorno ad altre sonorità che preferisco: mai snobbati, mai messi in prima fila. Una di quelle che ascolti se ti capita, forse a torto, ma perennemente nel limbo delle “band da approfondire” che crescono di numero anno dopo anno, porca miseria. La curiosità di ampliarne la conoscenza mi ha spinto ad ascoltare questo lavoro con una concentrazione da chirurgo durante un’operazione a cuore aperto.
A due anni di distanza dall’ultimo lavoro “The Weight Of Your Love” che aveva dato una certa direzione al sound del gruppo inglese capitanato da Tom Smith, gli Editors si sono resi conto che la tiepida accoglienza di quel disco voleva dire qualcosa: “rimettiamoci a lavorare sul serio e cerchiamo di ridefinire il nostro suono” sembra essere stato l’indirizzo preso dalla band, che ha sfornato a ragione un disco di transizione.
Si capisce che gli Editors stanno lasciando indietro alcuni momenti poco felici e stanno inglobando alcune novità. Le ispirazioni ci sono tutte: David Bowie troneggia senza dubbio, specialmente nella vocalità impressionante sfoderata da un Tom Smith che sfavilla nell’oscurità baritonale e nel falsetti inaspettati, ma non mancano i Depeche Mode e i Joy Division. C’è persino qualche ammiccamento a Beck come in “The Law”, dove spunta come per magia Rachel Goswell degli Slowdive a impreziosire il primissimo duetto nella storia degli Editors. Ed è veramente uno dei pezzi più interessanti e ipnotici dell’intero disco.
Forse a questo In Dream è mancato un po’ di coraggio di fondo, perché le dieci canzoni non riescono a mantenere l’attenzione omogenea che vorrebbero meritarsi: alcuni suoni di tastiera sono fastidiosi, altri arrangiamenti prediligono i sintetizzatori più cacofonici, come se uscire dagli anni Ottanta fosse ancora troppo difficile per gli Editors. A salvare il disco sono brani come “Ocean Of The Night”, “Forgiveness”, l’apertura con “No Harm” e il grido dolente di “At All Cost”, dove Tom Smith può dilagare in tutta la sua sconvolgente solidità vocale.