Faith No More – Sol Invictus

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Già il fatto che non si sentano citazioni da altri gruppi di Mike Patton, come ad esempio occhiolini random ai Tomahawk o ai Mr Bungle, è un grandissimo traguardo: “Sol Invictus”, settimo album dei Faith No More a diciotto anni dal precedente “Album Of The Year”, si incasella perfettamente nella splendida discografia della band californiana senza scendere a compromessi.

Come ogni album dei Faith No More da “The Real Thing” in avanti, il motore del gruppo sono Mike Patton e il suo variopinto utilizzo della voce (lo vedremo urlare, fare il crooner, sparare degli acuti, cantare.. in soli 39 minuti) e il duo Billy Gould – Mike Bordin: la sezione ritmica, anche grazie ad una produzione clamorosa che mette in risalto basso e batteria, ne esce come la vincitrice assoluta. Non da meno il lavoro alle chitarre di John Hudson, meno carismatico di un Jim Martin ma ben più completo, e alle tastiere di Roddy Bottum, che emergono negli inserimenti nei brani più pesanti e che trovano in “Sunny Side Up” un ruolo di primaria importanza.

Anche “Sol Invictus” richiede lo stesso approccio che si è dato agli altri lavori: mai cadere nella trappola di un ascolto, peraltro distratto, ma concedersi una serie di ascolti approfonditi, con la massima attenzione e magari in cuffia. Una cosa però non verrà risolta: il fatto che una “Rise Of The Fall”, in mezzo a sto ben di dio, stona, svelandosi come l’unico filler del disco. Il resto è grasso che cola, ed è molto meglio di quanto ci si sarebbe aspettato: da quella “Superhero” che non avrebbe sfigurato in un “King For A Day, Fool For A Lifetime”, e arrivando alla coda del disco composta dalla clamorosa “Matador” e da una “From The Dead” che, con il suo mood rilassato, sembra volersi collegare all’iniziale title track. In mezzo c’è di tutto: un grandissimo giro di basso in “Separation Anxiety”, una “Cone Of Shame” che svela uno dei pezzi più heavy della loro discografia, un pezzo come “Black Friday” che tanto potrà dire dal vivo e una “Motherfucker” che mette la band al servizio del talento vocale di Patton. Quanto basta per dire che “Sol Invictus” può essere considerato una delle uscite più importanti in ambito rock dell’ultimo lustro.

Nicola Lucchetta

Se la maturità arriva a 18 anni, ben venga l’attesa. È così che si può riassumere il ritorno dei Faith No More con “Sol Invictus”, a distanza di quasi due decenni dall’ultimo lavoro inedito in studio; perché la band capitanata da Mike Patton riesce a riportare la luce sul rock con un album denso, ricco di idee e spunti e compatto come una pietrata.

Non c’è modo di scappare dall’ascolto di “Sol Invictus”: ad inchiodare l’attenzione ci pensa una gragnola di basso e batteria, potente sezione ritmica portata in primissimo piano da una produzione che sbozza il diamante grezzo per farlo brillare di intensità variegate e solidità musicale. Rifuggendo dai progetti paralleli, i Faith No More si concentrano proprio sull’eredità del loro nome spolverando via diciotto anni di attesa e proponendo brani che funzionano con una forza conosciuta, ma sempre vitale.

Pezzi come la title-track “Sol Invictus”, “Superhero” e “Separation Anxiety” sono tra i migliori, l’ossatura profonda del disco; il singolo “Motherfucker” è l’apoteosi delle straordinarie qualità vocali di Mike Patton, che riesce a dimostrarci ancora una volta quanto sia il cantante più bravo in circolazione, senza strafare in virtuosismi eccessivi.

Un aggettivo per “Sol Invictus”: solido. Non un capolavoro al primo ascolto, ma una certezza che diventa granitica brano dopo brano, sostenuta da una struttura impossibile da scalfire. La pietra del rock dei Faith No More torna a splendere grezza e luminosa, punto fermo in un genere che ogni volta sembra annaspare per poi risorgere.

Arianna Galati

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