Non ripetersi, evitare di inserire il safety mode finendo negli anni col diventare la caricatura di se stesso, dev’essere questa l’ossessione di ogni musicista: evolversi ma senza perdere la propria unicità. Una cosa che riesce piuttosto bene ai Florence and the Machine, usciti il 1° giugno 2015 con l’attesissimo “How Big, How Blue, How Beautiful”.
A distanza di ben quattro anni da “Ceremonials”, l’album, il cui titolo è stato ispirato dal cielo di L.A., è il frutto di un caotico periodo di travaglio amoroso ed esistenziale, attraversato da Florence Welch dopo la lunga ed estenuante avventura on the road del “Ceremonials Tour”. Scritte e registrate nel corso del 2014, le 11 canzoni (16 nell’edizione deluxe) del disco sono state prodotte da Markus Drav (Björk, Arcade Fire, Coldplay) col contributo di Paul Epworth, John Hill e Kid Harpoon, amico e collaboratore di vecchia data di Florence, che lo ha voluto sin da subito nel progetto per mettere ordine tra le fila di una materia tanto personale.
«Con Markus volevo fare qualcosa che fosse grande ma avesse anche della delicatezza dentro. Qualcosa che avesse ben radicato un calore», ha spiegato Florence. Un desiderio che si concretizza musicalmente nel ritorno ad un suono live, guidato dalla band, che distingue “How Big, How Blue, How Beautiful” dai precedenti “Lungs” e “Ceremonials”. La novità dell’approccio è evidente sin dalle chitarre e dalla batteria dell’opening track, “Ship to Wreck”, secondo singolo estratto dall’album, seguita a ruota dal primo, quella “What Kind Of Man”, che offre un consistente assaggio dell’altra novità dell’album: i fiati (arrangiati niente meno che da quel geniaccio di Will Gregory dei Goldfrapp).
Una timbrica, quella della sezione di fiati, che dà sapore anche alla title track, scritta da Florence assieme a Isa Summers, tastierista della band e coautrice di altri due brani inclusi nel disco (“Delilah” e “Which Witch”). «“How Big How Blue How Beautiful” è stata la prima canzone che ho scritto subito dopo la fine del tour e il feeling di questa canzone è quello che stavo cercando», ha raccontato Florence. «Le trombe alla fine del pezzo sono quello che per me è l’amore, un’infinita sessione di fiati che va verso lo spazio e ti porta via con sé, così in alto. Questo è quello che la musica è per me. Vorresti solo che proseguisse per sempre ed è l’emozione più bella».
Potenza e delicatezza sono i due estremi che i Florence and the Machine riescono a far convivere in perfetto equilibrio all’interno delle singole canzoni, con una scrittura che si fa qui più raffinata, smussando le spigolosità caratteristiche di buona parte della produzione passata, ma anche lungo tutto il corso dell’album. La cassa in quattro e l’imponente riff di fiati di “Queen of Peace”, seguito dall’introspettiva “Various Storms & Saints”, quasi una preghiera, ne sono il perfetto esempio.
La forza e la vulnerabilità che animano il disco, intrecciandosi, lottando e cedendosi il passo per poi ribaltare gli equilibri quando meno te lo aspetti, sono le stesse che da sempre vivono nella voce unica di Florence Welch e che ce l’hanno fatta amare sin dalle prime note di “Dog Days Are Over”. Una voce attorno alla quale il cosmo di “How Big, How Blue, How Beautiful” è stato meravigliosamente disegnato e che in pezzi come “Long & Lost” esprime toni bluesy inediti, contenendosi sul mezzo piano con esiti inattesi in “Caught” e avvicinandosi stilisticamente a quella di Hannah Reid dei London Grammar nel dream pop di “Saint Jude”.
Non manca poi un tuffo nel passato con “Third Eye”, pezzo giocato su un abbondare di percussioni che ricorda i tempi di “Lungs”, ma che sconfessa il già sentito grazie a una linea vocale accompagnata da coretti anni ’60 del tutto nuovi per Florence. Così come inedito è il sensuale blues di “Mother”, pezzo scritto con la collaborazione di Paul Epworth, posto a sigillo di questa terza pietra miliare piazzata dai Florence and the Machine lungo il loro personalissimo cammino.