Con una cadenza quasi perfetta, i Foals tornano a far parlare di sé per un nuovo album. Quattro dischi dal 2008 ad oggi ed una tournée praticamente mai interrotta. Se “Antidotes” del 2008 è stata una vera rivelazione, il successivo “Total Life Forever” è stato il disco che ha segnato la consacrazione della band del folletto Yannis Philippakis. Un uno-due da brividi, una partenza sprint che ha pochi eguali tra le band nate nel decennio dal doppio zero. “Holy Fire“, la loro ultima fatica prima del recente “What Went Down”, ha segnato invece un piccolo stop a questo incedere devastante. Un cambio di suono cercato ma non riuscito a pieno. Una zavorra ancora pesante, quella dei primi due dischi, difficile da scrollarsi di dosso.
Questa volta i Foals decidono di affidare la direzione artistica del loro quarto album in studio a Mr. James Ford (Arctic Monkeys, Klaxons, Florence and the Machine), che oltre a produrre il disco si diverte anche a prenderne parte come strumentista e corista aggiunto. “What Went Down” apre il lavoro omonimo e la promozione dello stesso, uscendo come primo singolo. È un pezzo violento che rompe gli indugi senza lasciare spazio a compromessi, con un finale che è veramente un violento pugno sul volto. “Mountain at My Gates” invece cambia repentinamente scenario, una hit da dance hall, dal sapore “indie”, più vicina ad “Antidotes” per intenderci. “Birch Tree” incalza, permette di riconoscere immediamente “il suono Foals”, anche se la batteria non saltella ed è una drum machine morbida ed ipnotica, alla Strokes.
“Give It All” apre un’altra porta in questo lungo corridoio che è “What Went Down”: non ha forse la forza delle ballad di TLF, è un percorso più pop, più “Favourite Worst Nightmare”, giusto per citare un lavoro passato di Ford. “Albatross” e “Snake Oil” si assomigliano nel solco che tracciano, nervoso, scazzato. Tornano echi di TLF in “Night Swimmers”, ma con una ritmica decisamente più acida che in qualche modo ricorda l’ultimo lavoro dei Klaxons in “Rhythm of Life”.
“London Thunder” apre la tripletta conclusiva che dovrebbe abbassare i toni e accompagnare l’ascoltatore verso l’uscita, con l’incedere lento e ostinato di chi non vuole andarsene. Una ballatona molto pop, retta dalla voce di Yannis che però ha la capacità di aprirsi sul finale, in un ritornello veramente emozionante.
Tutta la strada percorsa fino a questo punto sembra però solo un pretesto per arrivare a “Lonely Hunter”, il capolavoro, la gemma rara. Pezzi così ne escono pochi nella vita, a qualcuno proprio mai. Il pezzo che forse hanno a lungo cercato. Un equilibrio precario e magico tra tutto quello sentito fino ad ora. Una componente pop fortissima che però non si allontana mai da ciò che i Foals ci hanno insegnato: l’incedere scandito della strofa, dilatata e sofferta porta al ritornello che vi farà venire voglia di strapparvi le braccia, mentre la frase “Love is a gun in your hand” è già da consegnare alla storia.
“A Knife in the Ocean” chiude l’album seguendo l’attitudine dei brani precedenti, senza alzare troppo i bpm, trascinandosi tra la marcetta della batteria e gli echi esagerati delle chitarre. Una soffitto fatto di suoni che si aprono all’infinito.
Un album maturo di una band ormai consapevole dei propri mezzi, che è stata in grado di mutare evolvendosi, abbracciando nuovi suoni e possibilità. Una livello di creatività nella scrittura che non era ancora mai stato raggiunto fino ad oggi, unito ad una produzione quasi perfetta. Un lavoro completo che racchiude tutto ciò che i Foals hanno saputo fare fino ad oggi, portandolo al massimo delle proprie possibilità. Fare meglio ora sarà difficile, ma ormai ci siamo fatti la bocca buona.
Album dell’anno.