Dave Grohl ha dimostrato di poter avere più di una carriera leggendaria nella storia del rock. Pochi altri possono vantare un simile primato e sono tutti nomi che fanno tremare i pilastri della musica al solo pronunciarli, come Ronnie James Dio o Robert Plant. Era il batterista dietro le linee rabbiose e favolose di Kurt Cobain nella mitologia della generazione appena prima di quella attuale ed è prepotentemente emerso a fronteggiare quella moderna.
Il suo volto è ovunque senza sosta, presenza costante nel web ancor più che nei nostri stereo. Prestazioni, storie e leggende si susseguono una dietro l’altra con una cassa di risonanza che nessun artista di razza ha mai avuto o usato meglio di lui. Internet innalza i Foo Fighters al trono di band imprescindibile per gli ascoltatori del rock mainstream raccontando le loro azioni sui palchi di tutto il mondo ingigantendo ogni episodio a poetico ed eroico viaggio verso la leggenda.
I Foo Fighters continuano con un gioco di specchi, una prestidigitazione che traveste un rimanere sempre se stessi in una rivoluzione continua. La formula è sempre la stessa da quel pop rock consolidato e magnificato dall’esordio omonimo del 1995, da “The Colour and the Shape” e “Nothing Left To Lose”. Un trittico che ha creato il manifesto della band, un mix di hard rock punk e pop che creano un miscuglio dall’altissima virulenza che contagia una delle fette di pubblico (e mercato) più vaste riscontrate nel mercato musicale.
Così per ormai più di vent’anni i Nostri vanno avanti cambiando pelle ma non sostanza. Con la serie ibrido documentario “Sonic Highways”, che univa suoni a immagini a radici storico musicali sul territorio, con la virata più diretta e rude di “Wasting Light”, i Foo non hanno in realtà mai smesso di essere un juke box produttore seriale di singoli radiofonici da classifica.
“Concrete and Gold” è un ennesimo capitolo di questa strada dritta che i Foo Fighters percorrono come uno scafato politicante, che armato di diabolico sorriso si prodiga in strette di mano senza tralasciare nessun potenziale elettore votante, abbracciando bambini e accarezzando anziani, facendo occhiolini ai giovani più scapestrati.
L’opera di auto contestualizzazione comincia subito dagli estratti. “Run” apre le danze con il solito video che attira l’attenzione con ironia e energia. La canzone è melodica ma potente, ricorda il mood di “Wasting Light” e fa sperare in un album più duro, urlato. Arriva poi “The Sky Is a Neighborhood”, una power ballad con un ritornello che ricorda una filastrocca di infantili rimandi, accompagnato anch’esso da un video spendido in cui compaiono come attrici le due bimbe di Grohl. Bellissimo video, bellissima canzone. Appena prima della release, “The Line” completa la gamma dell’offerta con una ballad classica del gruppo che ha il compito di rafforzare la sensazione di comfort zone dei fan del gruppo.
Il resto del disco è un piacevole arricchimento di atmosfere e colori che rendono l’ascolto vario e godibile, tanto da ricordare il capolavoro “The Colour and the Shape”. Come il secondo album inizia con una suite (allora “Doll”, ora “T-Shirt”) e continua alternando episodi più veloci come “Make It Right”, un riff blues azzeccatissimo e un cantato che ricorda l’Ian Gillan dei Deep Purple quando ha fronteggiato i Black Sabbath, a ballate dolci come “Happy Ever After (Zero Hour)”, cantilenante e docile, leggera nel suo binomio di voce e chitarra acustica.
Più acida e muscolosa “La Dee Da” che ricorda la “White Limo” di “Wasting Light”, solo un po’ più ariosa con la sua melodia accattivante e di sicura presa. “Dirty Water” ha quel mood sognante e spensierato che avevano alcuni episodi del loro esordio (ad esempio “Big Me”) o nel loro strabiliante album acustico (la seconda metà di “In Your Honor”) per poi trasformarsi in un headbanging di grohliana maniera nel finale. Solo un passo più indietro nella capacità persuasiva “Arrows” e “Sunday Rain” che nondimeno si presenta nell’interessante veste di Taylor Hawkins song, dove il batterista switcha al microfono sostituendo Dave. La title track è nell’inusuale posizione di chiusura e musicalmente è forse la più grande sorpresa. Riflessiva, oscura, distorta nei suoni, per la prima volta i Foo Fighters non danno l’impressione di accondiscendenza nei confronti dei propri fan consolidati e dello sconfinato bacino di futuri potenziali ascoltatori. Il suo ritornello è quasi una liberazione alla costrizione oppressiva dei versi.
Fare della coerenza oro e ricchezza è ormai l’obiettivo dichiarato dei Foo Fighters, band entrata ormai di diritto nella mitologia della musica che con un frenetico movimento crea un’illusione di continuo mutamento che cela appena sotto la superficie un codice genetico scolpito nel granito che non cambia mai e che produce in serie successo. E buona musica, non dimentichiamolo.