Torniamo indietro di un paio di anni. Dall’Inghilterra i Royal Blood insegnavano a tutto il mondo del rock come si potesse spaccare e riempire i palazzetti con solo voce, basso e batteria. Con due elementi si poteva fare parecchio rumore e soddisfare i palati di un esigua fetta di pubblico, riempendo i palazzetti e piazzando in classifica manciate di singoli. Tutto questo era il quadro mainstream, quello delle code in biglietteria, quello delle zone alte delle classifiche, delle prime pagine dei Magazine musicali di tutto il mondo. Ma dietro le luci, in quel luogo dove la penombra amplifica i tratti, dove i contorni fluttuano e diventano fuggevoli, dove si fatica a riconoscere le cose e gli oggetti e le bocche da cui provengono i sospiri e le urla possono essere al contempo a chilometri o proprio dietro di te… Un’altra band inglese esplodeva con il suo album ‘Vultures’.
I God Damn, altro duo rock, questa volta batteria voce e chitarra, stupivano con la loro energia assolutamente non patinata, esplosiva e diretta. Non hanno mai messo insieme folle oceaniche di spettatori ai loro concerti ma con un lavoro ispirato e che sprizza megatoni di energia ad ogni nota hanno costruito uno zoccolo di fan che attendeva con impazienza il loro nuovo lavoro, che non ha tardato ad arrivare. ‘Everything Ever’ ha il compito di confermare le premesse del predecessore e di conferire al gruppo una posizione all’interno del mercato e dei gusti dei propri fan.
L’attitudine della band è suggerita dal suo nome stesso. Un’esclamazione di sorpresa, di immediata reazione a qualcosa, potente e non pianificata. Un urlo di contrasto a qualcosa. La vena Grunge è presente in ogni elemento della musica del duo fin dai loro esordi non solo come déjà vu musicale, ma fin dentro la loro essenza. Ricordiamo come e perché sono nati alla fine degli anni ’80 i primi gruppi poi raggruppati nel grande calderone Grunge, prima che venisse stampato nelle magliette vendute all’aeroporto di Seattle. C’era l’esigenza di rompere, di cambiare rotta, e di ritrovare una purezza nell’amore per la musica che si riteneva fosse andata perduta nei gruppi glam che riempivano gli stadi. La voglia di esprimere un disagio e la rabbia conseguente contro tutte le istituzioni concepite, dai genitori ai politici, alla guerra fino al lavoro. Tutto era bersaglio di una protesta a volume altissimo e distorto, senza però dimenticare che senza la melodia la musica è solo rumore.
In questo album è confermata questa rabbia urlata in presa diretta, con momenti di melodia a tratti quasi pop, dove il cantato di Thom Edward si muove con dimestichezza e tecnica di gran lunga migliorata dall’ultimo lavoro. Ash Weaver dietro il muro di chitarre distorte picchia come se dovesse fare il lavoro di due persone (e lo deve fare).
L’apertura è affidata a ‘Sing This’, dove un ritmo cadenzato che ricorda gli americani Verbena (da non confondere con i nostri Verdena) sfonda con un ritornello urlato. La distorsione è abbondante e crea un amalgama noise che riempe la percezione musicale dell’ascoltatore. ‘Ghost’ ha una melodia più suadente con il tono di Thom che si abbassa e si raddolcisce, mentre l’accelerazione del ritornello impreziosisce il lavoro di forza della batteria di Ash. ‘Again Again’ è una sfuriata punk velocissima, la ripetizione della parola Again rimarrà in testa per un bel po’. Uno dei pezzi migliori dell’album è la successiva ‘Fake Prisons’, dove la band mette sul piatto tutti i suoi strumenti, ritornello al fulmicotone e verso melodico.
I momenti più melodici ricordano molto i Pixies, ‘I’ll Bury You’, la piacevolissima ‘Oh No’ dove quasi sembra di riconoscere echi di Brit Pop, ‘Dead To Me’ e la più cupa ‘Let’s Speak’.
Tra stacchi sabbathiani, momenti di stoner che vanno a braccetto al noise di stile Grunge e sfuriate Punk, i God Damn si piazzano contro la costruzione e mistificazione del suono delle grandissime produzioni, che standardizzano, ti forniscono gruppi che danno l’impressione di suonare esattamente quello che vuoi, ancor prima di accorgerti di volerlo.
Loro urlano e gridano senza fronzoli, ti suonano in faccia e se non ti piace, ti sposti. ‘Everything Ever’ risponde alla voglia dei fan di avere di più di quello avuto dal precedente ‘Vulturs’, più rabbia, più distorsioni, più urla e melodia. Il tutto scorre con una naturalezza disarmante, forse troppa. Viste le premesse, una leggera spettinata a fine disco è un po’ poco per un duo che aveva fatto presagire ad un terremoto destabilizzante di tutto il mainstream musicale. Consolidamento dei terreni conquistati, ma nulla di più.