“Revolution Radio”, il nuovo album dei Green Day, è finalmente uscito. E io non so cosa fare. Sono davvero poche quelle band che sono state così importanti nella tua storia personale da temere di esserne deluso. Dopotutto, esce un disco ogni tre o quattro anni. A volte anche di più. E se “Revolution Radio” fosse un pacco?
Ed è così che non mi godo il primo ascolto: perché penso ad altro. Ma va benissimo così: gli album che si metabolizzano con calma spesso poi piacciono più a lungo. E allora lo riascolto, e lo riascolto. Basta cazzate, ascolto le canzoni per quello che sono. E inizio a gustarmele. 12 brani, forse il numero ideale per un album singolo (venendo dall’enorme trilogia a un primo impatto sembrano pochine, ma non gliene facciamo una colpa).
La prima traccia, “Somewhere Now”, ci accoglie dolcemente tra i solchi. Se conosco i Green Day (e li conosco) – mi ritrovo a pensare – il brano esploderà da un momento all’altro. E così fa, intorno al primo minuto. La traccia successiva è “Bang Bang”, il primo singolo uscito ad agosto, il primissimo impatto avuto con questo album. È un brano tiratissimo, e nella produzione e nelle sonorità si percepisce un tocco di “American Idiot” (“I got my photo bomb / I got my Vietnam“). La dirompente tripletta d’apertura è completata dalla title-track “Revolution Radio”, che si apre su un bel riff (che tornerà nel solo) seguito dall’impeccabile batteria di Tre Cool. Non mancano le evocative immagini alle quali siamo stati abituati: petardi e benzina, la ricerca della verità, stelle e strisce per le anime perse.
“Say Goodbye”, propone una piccola sterzata, con un ritmo leggermente più appoggiato ma altrettanto coinvolgente. Difficile non tenere il tempo, mentre chitarre distorte e acustiche dalle corde stoppate si scontrano e si incontrano nelle pericolose strade americane. “Dì addio a quelli che amiamo […] Violenza in aumento, come un proiettile nel cielo / Oh Signore, abbi pietà della mia anima […] dì ciao agli sbirri di ronda”. Un messaggio non troppo velato, che riporta i Green Day a quella dimensione punk di denuncia sociale che è un piacere ritrovare.
Se “Outlaws” regala immagini idealizzate di una passata gioventù fuori dalla legge, “Bouncing Off The Wall” è un classico brano rapido e immediato da nemmeno tre minuti, come anche il successivo “Youngblood”. Uno dei pilastri del disco è “Still Breathing”, una storia che ne racchiude molte altre. Il figlio senza padre, il soldato che torna dal fronte, la madre che manda avanti la baracca: tutti i volti incontrati nelle strofe convergono nel ritornello, con la propria forza di sopravvivere nonostante tutto.
Dopo “Too Dumb To Die”, piuttosto in linea con il resto dell’album, “Troubled Times” ci presenta un’atmosfera più grigia: musica e parole trasmettono un senso di ansia e disillusione per il mondo che ci circonda. In “Forever Now” il cantante prende la parola in prima persona, e parafrasa il Johnny B. Goode di Chuck Berry: “Non ho mai imparato a leggere o scrivere troppo bene / Ma posso suonare la chitarra finché non fa un male cane” (in originale: “I’ve never learned to read or write so well / But I can play the guitar until it hurts like hell”, mentre di Johnny si diceva che “never ever learned to read or write so well /But he could play the guitar just like a ringing a bell”).
No, “Revolution Radio” non è un pacco. Anzi, cattura di più dopo ogni ascolto. I brani funzionano musicalmente ed emozionalmente, e sono figli della continua maturazione della band, che mantiene i suoi tratti indistinguibili senza però proporre una minestra riscaldata. Aspettano sempre qualche anno tra un disco e l’altro i Green Day, ma forse aspettano soltanto di avere qualcosa di interessante da dire.
L’ultima traccia è “Ordinary World”, ballad acustica suonata alla chitarra, che sarà nel film omonimo con Billie Joe Armstong. Al suo primo ruolo da protagonista, sarà nella parte di un punk rocker che ha messo su famiglia ma sente ancora dentro di sé il bruciante impulso a imbracciare la chitarra. Una storia quanto mai autobiografica, per Billie Joe e per tutta la band, e una perfetta chiusura dell’album.
“I giorni diventano anni / è dove vivrò fino alla morte / mondo ordinario. / Piccola, non ho molto / ma quello che abbiamo è più che sufficiente / mondo ordinario”.