Greyhaven – Empty Black
Paragonati da molti agli Every Time I Die dei tempi di “Low Teens”, i Greyhaven non si limitano a comportarsi da mere copie carbone, ma riescono a dare alla luce un disco, “Empty Black”, convincente da cima a fondo, grazie a qualche guizzo personale e a molte intuizioni azzeccate, citando anche i Norma Jean e andando a scomodare pure i Deftones. Il nuovo lavoro dei Nostri è un crescendo ininterrotto a partire dalla opener “Sweet Machine” (eccezion fatta per la più introspettiva “White Lighters”), che culmina nella finale “Echo and Dust Pt. II”, summa perfetta dell’opera, piazzata in posizione strategica.
Rivers of Nihil – Where Owls Know My Name
La terza fatica degli statunitensi Rivers of Nihil ruota intorno alle gelide tematiche della stagione fredda (i lavori precedenti invece avevano come fulcro rispettivamente la primavera e l’estate), ma tranquilli, anche gli amanti del caldo troveranno conforto in “Where Owls Know My Name”, un’opera che sarebbe riduttivo definire death metal, dati i frequenti elementi progressive (“A Home”), o ombre electro/industrial (“Terrestria III: Wither”). Ma il vero fil rouge del disco è il sassofono (non una novità nel metal estremo a dire il vero, dato che già Ihsahn e White Ward ne hanno fatto uso), presente non solo come orpello ma come elemento fondante della narrazione. Un talento e una varietà che non si trovano facilmente là fuori. Ne sentiremo parlare ancora.
Eryn Non Dae – Abandon of the Self
Se l’intento dei Eryn Non Dae era stranire, angosciare e confondere l’ascoltatore ci sono riusciti alla perfezione. Il terzo full-length della formazione francese narra nel modo più multisfaccettato e sinistro possibile la dicotomia tra caos e calma, in salsa black-doom-post-metal, senza soluzione di continuità, ma creando un’aura che più scura di così non si può. Meno male che fuori in questi giorni c’è il sole, altrimenti “Abandon of the Self” sarebbe davvero duro da digerire. Solo per stomaci forti.
Conjurer – Mire
Il debutto degli inglesi Conjurer è un coacervo di riff e cantato death metal, immerso in atmosfere cupissime e angoscianti al limite del doom più spinto, con in più, se non bastasse, un pizzico di velocità blackened. Il bello però è che tutto questo bendidio non è lasciato in balia del caso, ma anzi, è tenuto insieme da una trama progressive metal (che alcuni colleghi esteri hanno paragonato a una versione più pesante dei Mastodon). Le idee, anche se altrui ovviamente, ci sono, ma alla lunga “Mire” può risultare forse un po’ noioso per chi ama le sonorità sopracitate.
Ministry – AmeriKKKant
Un concept sulla guerra, la politica e la religione negli States all’alba dell’elezione di Trump (definito tra Al Jourgensen con una miriade di epiteti, tra i quali forse il più “carino” è pagliaccio). Mica cazzi, direte voi, e il quattordicesimo lavoro in studio dei pionieri dell’industrial metal veicola un messaggio molto potente e sconfortante, pur senza dire niente di nuovo a livello musicale. L’elettronica ovviamente ha la meglio sulle chitarre (tranne che rari casi tipo “We’re Tired of It”) e non mancano le influenze hip hop, oltre che i comizi campionati, ospitate di livello (Burton C. Bell) e altre amenità del genere a cui i Ministry ci hanno abituati nel corso della loro carriera.
The Crown – Cobra Speed Venom
Ritorno alle origini per i The Crown, dopo la parentesi più “melodica” risalente a quasi tre anni fa del precedente “Death Is Not Dead”. Il decimo album dei veterani del death metal svedese (anche se a dirla tutta, soprattutto a livello di songwriting non hanno mai goduto delle stesse fortune dei connazionali In Flames, At the Gates e Soilwork) ripropone instancabilmente melo-death dalle accelerazioni thrash nel rispetto di un’estetica molto anni ’90, anche nella produzione. Se lo swedish death non vi ha mai detto nulla, skippate pure senza timore.
Casey – Where I Go When I Am Sleeping
Qui di tristezza ne abbiamo davvero a palate. Tra facce da funerale, emozioni, accenni di spoken word, post-hardcore, post-rock e un retrogusto spesso al limite dell’ambient, il secondo full-length dei gallesi Casey (a quasi due anni di distanza dal fortunato debutto “Love Is Not Enough”) è un gradevole crogiolarsi nella mestizia. Però aspettate un attimo, dove avevamo già sentito tutto ciò? Forse dai Being As An Ocean, tanto per dirne una.
Moose Blood – I Don’t Think I Can Do This Anymore
Molti di voi si chiederanno: “Ma che c’entrano i Moose Blood nella Heavy Countdown?”. La risposta è nulla, ma la ragione è più che nobile, lo faccio per i vostri timpani. In una playlist forse più cupa e politicamente impegnata rispetto al solito, i Nostri ci stanno bene come diversivo. C’è da dire però che tra ragazze e sigarette, alla terza prova i Moose Blood non evolvono di una virgola rispetto al loro sound originario, un indie/emo leggero come un tiro di Marlboro Light (se volete qualcosa di più corposo nel genere, rivolgetevi ai Brand New).