“We’ve got the vision, now let’s have some fun”, cantavano gli MGMT in “Time To Pretend”. Un verso, che sembra adattarsi perfettamente al ritorno discografico di Grimes, che di visioni ne ha avute – e provocate – più d’una e che, archiviato il lisergico effluvio sperimentale di “Visions”, è riemersa dallo studio con un album fluido, orecchiabile e ricco di intriganti particolari. Scevri dai momenti di pesantezza, che qua e là rallentavano i lavori precedenti, i 14 brani di “Art Angels”, infatti, si fanno ascoltare tutti d’un fiato.
Idee chiarissime per la musicista e produttrice canadese che, come di consueto, ha gestito tutte le fasi della lavorazione di un disco, il quarto in carriera, col quale dimostra di avere trovato la perfetta alchimia tra forma e sostanza. Sono tante le differenze che lo separano dai suoi altri lavori – la ripresa in “World Princess part II” del titolo di un brano di “Halfaxa” suona in questo senso piuttosto significativa -, a partire da una vocalità più solida, corposa e che rispetto al passato si allunga anche verso una tessitura più grave. Lo si sente subito dopo i vocalizzi del brano di apertura, “Laughing And Not Being Normal”, quasi un carol, in “California”, prima chicca electro pop del disco, che ne testimonia anche la maggior pulizia nella scrittura. In “Art Angels” ogni elemento è esattamente dove dovrebbe essere e la ricchezza e stratificazione degli arrangiamenti, che assieme ai dettagli dei campionamenti usati per le ritmiche lo rendono un album non solo bello da ballare, ma fantastico da ascoltare (…ballando), non cedono mai a barocchismi di sorta.
Gli zuccherini disseminati con abbondanza da Clair Boucher (nome di battesimo dell’artista) nel disco sono i synth anni 80 di “Flesh Without Blood”, primo singolo estratto dall’album e perla synth pop che ricorda i Goldfrapp di “Head First”; le chitarre di “Belly Of the Beat”, dove invece si sentono nella voce, ma non solo, gli echi della Kate Bush di “The Sensual World”, e quelle 90s di “Artangels” e “Pin”, un pezzo in cui l’atmosfera ovattata della strofa si apre nel trasporto della ritmica d’n’b di un chorus piacevolmente arioso; e la breve frase di synth di “Realiti”, in grado di creare dipendenza per tutti i 5:07 minuti del brano e oltre, ma che Grimes offre con parsimonia, abilmente disattendendo le aspettative dell’ascoltatore (ed è lì che scatta l’addiction) e dando vita ad uno dei brani più belli del disco. E poi ci sono i cori da cheerleader di “Kill V. Maim”, i violini a sorpresa di “Venus Fly” ft. Janelle Monáe uno dei pezzi più raffinatamente tamarri del disco assieme all’altra collaborazione inclusa, quella con la rapper taiwanese Aristophanes in “SCREAM”. Roba che nemmeno nei peggiori bar di Caracas, ma che seguita dalla ballata “Life In The Vivid Dream” conferisce ulteriore varietà ad un lavoro piacevolmente mosso per vocazione e che trova il suo minimo comune denominatore in un gusto per la melodia orecchiabile, ma mai banale o stucchevole. Un compendio storicamente aggiornato di 35 anni di pop partorito dalla mente di una musicista estremamente intelligente.