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“Diamond Eyes” è maturato ed esce in un periodo nerissimo per il gruppo di Sacramento. Quello successivo all’incidente di cui è rimasto vittima Chi Cheng, investito da un automobilista ubriaco il 5 novembre 2008, incidente dal quale il bassista non si è ancora ripreso del tutto, tanto che nel nuovo disco il basso è stato suonato da Sergio Vega. Tutte cose di dominio pubblico, ma per meglio comprendere il sesto album dei Deftones è bene ricordarle e tenerle a mente.
Stiamo parlando di uno dei dischi più cupi e violenti dei californiani, che si distacca nettamente dalle atmosfere rarefatte – e un po’ pigre e inconcludenti – di “Saturday Night Wrist”, ricollegandosi idealmente ai vecchi capolavori della band, quando questa era fra i portavoce più credibili del nu metal e sembrava destinata a diventare uno degli act hard’n’heavy più grandi di sempre. Cosa che poi, a voler essere del tutto onesti, non è successa, anche se i Deftones rimangono dei fuoriclasse, prova ne sia il fatto di esser comunque riusciti a salvarsi dal naufragio che ha investito gran parte del movimento nu di fine anni Novanta. Anzi, a ben vedere, loro oggi sono decisamente più vivi e vitali dei Korn stessi, ossia di coloro che quel movimento l’hanno divulgato al mondo intero più di chiunque altro.
Torniamo al disco, anche se su “Diamond Eyes” non c’è molto da elucubrare. Perché si tratta di un’opera al 100% Deftones, perfettamente ascrivibile al loro stile più classico e riconosciuto. S’intuisce fin dal primo ascolto. Lo stesso Chino Moreno ha descritto la nuova fatica come un ideale incrocio fra il sound di “Around The Fur” e quello di “White Pony”. Definizione perfetta: l’album suona proprio così, in un continuo susseguirsi di momenti in cui l’angoscia viene a stento repressa, ed altri nei quali rabbia e tensione vengono lasciate libere di esplodere come ai vecchi tempi. Ci sono pezzi selvaggi e giocati sulla violenza tout court come “CMND/CTRL” e “Rocket Skates”, altri più complessi e policromi quali “Royal” e la title – track stessa, altri ancora maggiormente oscuri e vellutati, riecheggianti in parte i Team Sleep, e questo è il caso di “Beauty School”, “Sex Tape” e della conclusiva “This Place Is Death”. È soprattutto il disco di Moreno, che ha ormai raggiunto una duttilità vocale pazzesca, in grado di passare dall’urlo all’acuto melodico con una facilità disarmante. Probabilmente è la sua miglior prova di sempre (sentite “976-Evil”). Per il resto la musica è quella consueta: chitarre affilate, sezione ritmica nervosa e tastiere mai invadenti s’impegnano nel trasformare il dark e la new wave degli anni Ottanta in un metal minaccioso e ricco di groove, percorso da sussulti hardcore.
A voler essere cinici, si potrebbe leggere “Diamond Eyes” come l’ennesima operazione nostalgia, ossia un tentativo di tornare a fare quello che è sempre riuscito meglio ai Deftones, rinsaldando così il rapporto con i kid di una decina d’anni fa, e sperando contemporaneamente di reclutarne di nuovi, anche se i trend del momento paiono tirare da tutt’altra parte. Dietrologie a parte, questo è il loro miglior album dai tempi di “White Pony”, in grado di surclassare lo scialbo omonimo e il già citato “Saturday Night Wrist”. Odora forse un po’ troppo di passato, ma in fin dei conti è giusto che dei musicisti come loro, che hanno comunque scritto pagine importanti nella storia della musica dura, suonino quello che più è nelle loro corde.
Stefano Masnaghetti