C’era una volta un ragazzo. C’era una volta un ragazzo talentuoso. C’era una volta un ragazzo molto talentuoso, polistrumentista, certamente colto o quantomeno non superficiale, ma con gravi problemi familiari ed esistenziali, e per tutte queste ragioni emarginato da una Norvegia votata all’americanismo più piatto e limitante. Questo ragazzo riusciva a sfogare le sue angosce grazie alla sua musica, nella quale riversava tutto il suo odio per l’ipocrisia della società moderna, tutto il suo furiosissimo sdegno verso coloro che cercano di ammorbare il cammino dell’uomo timorato. Questo ragazzo credeva forse troppo in quello che faceva, perse il controllo e finì per compiere gli atti criminosi di cui ben tutti siamo a conoscenza. Ma ciò che c’era una volta, det som engang var, ora non c’è più.
Ora quel ragazzo è diventato uomo, quell’uomo ha dovuto superare le sue angosce e le sue paure “grazie” a quattordici anni di prigionia. E tutto questo si avverte chiaramente in Belus. La disperazione dei suoi anni novanta ormai è solo un ricordo sbiadito, ed è stata sostituita dal più freddo e distaccato cinismo di chi ha passato sulla propria pelle il totale male di vivere. La rassegnazione di chi le angosce le ha dovute affrontare in cella. Da solo. Sicuramente oggi l’uomo Varg Vikerness è più maturo e consapevole di sé. E tutto questo si avverte chiaramente in Belus. Il Conte cerca di ricordare certe sensazioni della sua gioventù, le conosce bene, gli ritornano in mente, anche se forse un po’ sbiadite dagli anni, le estrapola, prova a riversarle anche in Belus, ci riesce ma forse non completamente. Intendiamoci, la misantropia che abbiamo apprezzato nei suoi lavori storici è ancora perfettamente riconoscibile, però forse manca parte di quella palpabile atmosfera di totale desolazione e dolorosa disperazione che aleggiava nell’aria durante e dopo il loro ascolto. Forse ciò è dovuto al fatto che lo screaming di Varg non è più lacerante come un tempo ma più freddo e distaccato.
In ogni caso Belus è un ottimo disco, forse migliore di ogni aspettativa. Nonostante la completa assenza di tastiera, la varietà non manca di certo. Si passa infatti da parti tiratissime old school ad altre molto lente e claustrofobiche, marchio di fabbrica esclusivo del progetto Burzum. Musicalmente infatti il Conte non solo ripercorre tutto il repertorio del suo periodo black metal, dall’omonimo a Filosofem, ma lo fa senza cali di tono e anzi con picchi notevoli. Le liriche poetico-descrittive tipiche di Varg completano e arricchiscono quello che è il miglior ritorno possibile sulla scena. Il ritorno di un uomo, prima ancora che di un artista, probabilmente mai compreso del tutto, forse neanche da sé stesso. D’altronde lui non è morto, lui non ha mai vissuto.
Manuel Marini