Se avete bisogno di un disco che vi distrugga interiormente, eccolo servito.
L’accezione può essere positiva o negativa a seconda dell’ascoltatore, poiché abbiamo davanti un lavoro molto complesso, con pezzi della durata di circa sei minuti che a volte risultano difficilmente ascoltabili per un orecchio non allenato al genere; lo sludge-core professato dai Black Sun risulta quindi la commistione di due generi musicali, lo sludge metal (con esponenti di lusso come Crowbar e Down, entrambi provenienti dalla scena di New Orleans) e l’hardcore punk.
Il sound dei Black Sun è caratterizzato da distorsioni al limite del noise, con tempi più lenti e testi estremi enfatizzati dalla potenza vocale di Russell McEwan e Kevin Hare. Le atmosfere create sono inquietanti, quasi simili ad incubi, interminabili ed oscure; per questo motivo il disco risulta di difficile ascolto a chi non ha una grande apertura a livello musicale e non è disposto a farsi (metaforicamente) prendere a pugni in faccia per un’ora bell’e buona senza potersi difendere.
Una menzione particolare va a “Black Angel”, forse il capitolo più riuscito per quello che è l’avvicinarsi ad uno standard minimo di comprensione per chi si avventa casualmente su di un lavoro di questo tipo. Gli intrecci tra musicalità (s’intenda il muro sonoro descrivibile con la forza di un caterpillar che investe l’ascoltatore) e voci (evocativa quella del batterista/cantante McEwan e disperata quella del chitarrista/cantante Hare) emergono soprattutto in tracce come “Code Black”, “Tabula Rasa” e “Transcending The Mire”, ravvisabili come ulteriori capitoli degni (quantomeno) di un (seppur breve) ascolto.
La difficoltà comunicativa è evidente, il fatto che ci si trovi davanti ad un prodotto destinato a ‘pochi eletti’ altrettanto, sebbene i Black Sun godano di una nutrita fan base che si sarà sicuramente allietata le orecchie con questo mix di sperimentazioni ed influenze; astenersi amanti degli standard ed orecchi deboli.
Federico Croci