Il nuovo Belphegor si può già da ora inserire nel novero dei dischi ‘controversi’. Mi spiego meglio: la band austriaca non è mai stata famosa per particolari ricerche stilistiche e la sua proposta musicale non ha mai brillato sotto il punto di vista dell’originalità. Soprattutto nei primi dischi, l’imperativo categorico di Helmuth e compagni è sempre stato quello di far più casino possibile tramite brani compatti e monolitici, propulsi da incessanti tappeti di blast – beat e oscillanti fra il death e il black metal (blackened – death metal lo chiamano alcuni).
Tuttavia, già percettibile ad inizio carriera, e col passare degli anni sempre più preponderante, la tendenza ‘melodica’ del gruppo ha finito per imporsi in questo disco, e così le tentazioni ‘svedesi’ sono divenute un punto fermo nel suono di “Blood Magick Necromance”. In tutto ciò, un ruolo fondamentale l’ha avuto Peter Tägtgren, che ha prodotto l’album nei suoi famigerati Abyss Studio, dandogli quel particolare tocco freddo e preciso, quasi levigato e, a voler esser critici, persino asettico. Così gli otto nuovi brani dei Belphegor appaiono come una ricapitolazione delle esperienze di Naglfar, Dissection, Dark Funeral e Marduk, il tutto però rivisto nell’ottica di una ricerca melodica più accentuata rispetto a quanto fatto dai nomi sopracitati. Ecco allora chiari esempi di violento ma orecchiabile death – black metal come “Rise To Fall And Fall To Rise” e la stessa title – track (anche se quest’ultima, nei gorgoglianti filtri vocali, presenta brevi suggestioni alla Morbid Angel periodo “Domination”), densi di blast – beat ma anche di rallentamenti e dalle armonizzazioni chitarristiche inequivocabilmente “Made in Abyss”; ma basterebbe citare l’apripista “In Blood – Devour This Sanctity” per avere un quadro completo di quel che si troverà negli episodi successivi: nel mezzo del bailamme dettato dal drumming forsennato e dal growl di Helmuth, affiorano riff smaccatamente ‘swedish’ e aperture atmosferiche divenute la regola in questo sottogenere, prima che la canzone termini con dei marziali incisi di batteria.
Ecco spiegato il perché di quel ‘controverso’ all’inizio. “Blood Magick Necrmomance”, orrida copertina a parte, è sicuramente un disco professionale e di un certo valore; tuttavia la maggior dose di melodia e la produzione ultra calcolata di Tägtgren potrebbero costituire un deterrente per i fan della prima ora, quelli che preferivano i Belphegor originari, più grezzi e spontanei. Al contrario, chi già apprezzava gli ultimi dischi dei Nostri e la loro maggior ‘serietà’, non farà fatica ad eleggere quest’ultimo quale album preferito del complesso. Un’opera dai due volti, insomma, prendere o lasciare.
Stefano Masnaghetti