Ai tempi dei Coal Chamber, Dez Fafara assaporò la possibilità di diventare una vera e propria rockstar. Certo il suo gruppo, nonostante integrasse bene le proprie influenze in un sound discretamente personale, derivava davvero molto dai prime mover del nu metal, i Korn. Tuttavia il primo album omonimo (1997), grazie anche al singolo “Loco” (in heavy rotation su Mtv ai tempi), li poneva in rampa di lancio per una carriera scintillante. Poi si sa come vanno a finire certe storie: il boom del genere inizia a calare, rimangono in piedi solo le band enormi, e i Coal Chamber si sciolgono. Ma Dez non molla, e diventato frontman dei più ‘moderni’ DevilDriver si ricicla quale alfiere di un modern thrash ricco di groove e dalle marcate componenti swedish death. È costretto ad abbandonare i sogni di gloria più spropositati, ma non per questo è meno convinto di quello che fa. Lungi dall’essere un falsario da due soldi, col suo nuovo complesso dimostra di avere ancora molto da dire, basti pensare ad un gioiellino come “The Fury Of Our Maker’s Hand”, ottimo esempio di come dovrebbe suonare un disco thrash metal nel 2005, dopo Pantera e Machine Head. Insomma, i DevilDriver dimostrano di valere per conto proprio, al di là delle varie mode.
E anche “Beast”, loro quinto album, dimostra di valere parecchio. Fondamentalmente è una prosecuzione dello stile del precedente “Pray For Villains” (2009): le influenze svedesi sono diminuite (si nota ancora qualcosa in “Dead To Rights” e in “Hardened”, molto meno nelle altre tracce del lavoro), per lasciare spazio a pesantezze groove thrash ideali per scatenare pogo inumano. È un disco costruito per funzionare dal vivo, e le botte della velocissima “Bring The Fight (To The Floor)” e della più satura e cadenzata “Shitlist” lo testimoniano ampiamente. Il growl di Dez è in forma stupenda, a volte persino tendente allo scream, e i compagni lo supportano che è una meraviglia. A livello puramente tecnico, poi, questa è forse l’opera più convincente dei DevilDriver, così in “Crowns Of Creation” Boecklin può mettere in mostra tutta la sua perizia dietro le pelli, mentre “The Blame Game” è dominata da un groove epidermico che può suonare come una versione più ‘cattiva’ dei Lamb Of God.
La debolezza di “Beast” è riconducibile al fatto che non aggiunge davvero nulla alla carriera della band. Ma non si tratta affatto di un disco inutile, anzi la sua forza risiede nella capacità di presentare al meglio tutte le qualità che hanno permesso a Fafara e soci di ritagliarsi un posto nella storia del metal degli ultimi anni. Non saranno delle rockstar, ma una solida realtà con la quale molti devono fare i conti.
Stefano Masnaghetti