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Difficile scrivere degli Electric Wizard dicendo qualcosa che ancora non è stato detto. Stiamo parlando di una formazione che ha scritto un pezzo di storia della musica: nella sua nicchia, beninteso, ma è comunque stata una delle band che più hanno influenzato l’underground nell’ultimo decennio, venerata e rispettata da miriadi di gruppi intenti a scandagliare i recessi più cupi e minacciosi del doom, dello stoner, della psichedelia più malata e distorta. Nel loro curriculum possono vantare almeno un paio di capolavori, “Come My Fanatics…” (1997) e “Dopethrone” (2000), più una manciata di altri buonissimi dischi, ognuno dei quali contiene almeno tre – quattro episodi di grande interesse.
Poi gli anni passano per tutti, le idee non sono infinite, il rock è spietato verso i suoi adepti, e inevitabilmente anche i migliori perdono un po’ di smalto.
Così “Black Masses”, loro settimo album, non contiene grossi elementi di novità rispetto a “Witchcult Today” (2007), anzi ne è una sua ideale prosecuzione, sin dall’iconografia e dai temi trattati, ancora una volta totalmente incentrati su magia nera e occultismo, con contorno di streghe discinte e immagini tratte dalle pellicole cult di Jess Franco, Jean Rollin e registi simili. La produzione, sporchissima, è identica a quella del suo predecessore, e anche a livello compositivo sono poche le differenze: riaffiora un po’ di stoner psichedelico a scapito dello sludge, ma in generale i nuovi brani sono un semplice affinamento dei loro diretti antecedenti. Un suono meno pesante e più classico, quindi, maggiormente controllato, una ricerca della ‘forma – canzone’ che in questo nuovo lavoro si è fatta ancor più accentuata: non c’è più spazio per la violenza delirante di brani come “Funeralopolis” o “We, the Undead”. Si sarebbe tentati di dividere il disco in due parti. La prima è la più vicina al doom metal duro e puro: “Black Mass” sfodera il riff più sabbathiano che gli Electric Wizard abbiano mai scritto, e pure nelle successive “Venus in Furs” (nessuna parentela con i Velvet Underground) e “The Nightchild” l’atmosfera è vicina a St. Vitus, Pentagram e affini, ovviamente un po’ inacidita e stravolta dall’ossessività ritualistica tipica del complesso. Fra l’altro, i tempi sono anche abbastanza ‘veloci’ per i loro standard. In “Patterns of Evil” inizia a filtrare qualche scampolo di stoner in più (vedi l’assolo di chitarra). Con “Satyr IX” il riffing si sfilaccia, i tempi rallentano e iniziano a circolare rumori e ronzii vari. “Turn Off Your Mind” è acid rock bello carico, “Scorpio Curse” è un numero di putrido stoner – sludge nella loro miglior vena, mentre il compito di chiudere i giochi è affidato a “Crypt Of Drugula”, suite strumentale per feedback e cacofonie assortite.
L’irruenza dei primi tempi è diminuita, ma lo stile è rimasto unico ed inimitabile. Senza esser un capolavoro, “Black Masses” è un’altra ottima opera da parte degli inglesi, che anche in questa seconda fase del loro percorso artistico rimangono dei fuoriclasse.
Stefano Masnaghetti