Mercy – Long, Long Way To Go – Take Me Up – The Burning Man – Heaven’s Hung In Black – Heaven’s Blessed – Teacher – Heaven’s Hung In Black (Reprise) – Deal With The Devil
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Davvero carino il nuovo album di Blackie Lawless e soci. Dopo il brutto scivolone del precedente ‘The Neon God’ (2004), una roba messa insieme quasi alla meno peggio, la band americana torna ai buoni livelli di ‘Dying For The World’ (2002). Proprio da quel disco, che forse era il più marcatamente heavy metal di tutta la discografia, riprende il sound e le tematiche trattate. Con una produzione forse più asciutta e meno elaborata, ma comunque cristallina e potente, il buon Blackie urla ancora la disperazione, la rabbia e la sofferenza provate dopo il 9/11/01, in bilico tra il desiderio di vendetta verso i nemici degli Stati Uniti e la frustrazione provocata dal governo inetto e dalle istituzioni ladre.
Non sprigionerà la rabbia degli Slipknot ma di energia ce n’è parecchia. ‘Mercy’ e ‘Long, Long Way To Go’ aprono subito con riff davvero ‘crunchy’ (come direbbero gli anglofoni), batteria schiacciasassi (il nuovo acquisto non avrà uno stile unico come l”uscente Stet Howland ma è comunque solido) e testi incazzati senza cadere nel banale; in particolare l’opener presenta alla grande quel senso di desiderio di prevaricazione fisica e sottomissione che fin dagli esordi la band non ha mai voluto risparmiare. ‘Take Me Up’ e ‘The Burning Man’ invece affrontano la questione metal da un punto di vista più melodico, con forti riferimenti agli Iron Maiden, alla NWOBHM e pure un piccola citazione al passato dei W.A.S.P. Il climax del disco lo raggiunge però la sofferta suite ‘Heaven’s Hung In Black’: un immaginario dialogo tra San Pietro e un soldato in Iraq in punto di morte che sfrutta appieno il grande gusto per la melodia e la melodrammaticità di Blackie. Emozionante anche la parte centrale con ‘Heaven’s Blessed’ dove un’azzeccata linea vocale si sposa perfettamente con il lavoro delle chitarre. Appuntamento ormai immancabile, la band si concede per il finale il suo classico saluto puramente hard rock, con un orgasmo di assoli come ormai solo lei sembra in grado di offrire. A riguardo si è inserito molto bene il chitarrista Doung Blair, da secoli membro ‘di scorta’ e per la prima volta immortalato su disco.
Un disco vecchia scuola, per una band che ormai non fa certamente la differenza, ma che grazie a grande stile e anni di esperienza riesce a regalare a chi non piace il metal urlato un disco completo e ricco di emozioni.
M.B.