[Heavy Metal] Danzig – Deth Red Sabaoth (2010)


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Conosciamo il buon Glenn Danzig per i suoi trascorsi nei Misfits, quando era giovane e scavezzacollo. Anche se l’apice, artistico e commerciale, l’ha raggiunto con i primi due dischi della sua band, l’omonimo (1988) e “Lucifuge” (1990). Che suonavano come nessun’altra cosa avesse mai suonato in passato. Fu il primo ad aver l’idea geniale di fondere il classico heavy metal con una torva vena blues e di cantarci sopra come se fosse un Elvis degli inferi; così riuscì ad incidere due capolavori che, tuttora, nessuno è stato in grado di imitare. Poi arrivarono un paio di dischi buoni ma non eccezionali, “How The Gods Kill” (1992) e “4p” (1994), l’ultimo dei quali mostrava già segni di preoccupante appannamento. Infine, lo sprofondo. Con “Blackacidevil” (1996) Danzig si buttava malamente a fare industrial, genere in cui appariva totalmente fuori luogo, incapace di cavar fuori qualcosa di buono da tastiere e sintetizzatori vari. Il disco fu pure un flop clamoroso a livello di vendite, così il Nostro corse ai ripari tornando, almeno in parte, alle vecchie sonorità. Ma i successivi tre lavori, “Satan’s Child” (1999), “I Luciferi” (2002) e “Circle Of Snakes” (2004) non andavano oltre un doom metal di maniera, piatto e scontato. Insomma, dei Danzig si parlava sempre meno, e il silenzio successivo apparve come la conferma della fine del progetto.

Invece Glenn, dopo sei anni di stallo, ritorna con un’opera incredibilmente convincente. “Deth Red Sabaoth” è, probabilmente, il suo miglior disco dai tempi di “How The Gods Kill”. Fondamentalmente si tratta della consueta ‘operazione nostalgia’ che quasi tutti i musicisti in crisi tentano di realizzare nella loro carriera. Quindi nessuno si aspetti chissà quali novità; semplicemente, Danzig è tornato al vecchio hard’n’heavy dei primi due dischi, pregno di pose alla Jim Morrison e forte di uno stile vocale a cavallo fra Presley e Screamin’ Jay Hawkins, mentre le basi strumentali incrociano sulfureo blues elettrico e schitarrate metal, il tutto condito da alcuni rallentamenti di derivazione sabbathiana (cfr. “Hammer Of The Gods” e “Night Star Hel”). La voce non è più quella di vent’anni fa (ma rimane più che buona, a tratti ottima) e i riff non sono freschissimi (ma Tommy Victor ne azzecca comunque parecchi in parecchie canzoni), eppure “Deth Red Sabaoth” rimane il meglio che ci si possa aspettare da Danzig nel 2010. Merito di un suono caldo e totalmente analogico, merito soprattutto di pezzi come “Black Candy”, “Deth Red Moon” e “Ju Ju Bone”, in grado di riportare in auge i vecchi scheletri presenti nei primi due capitoli della band. E la semi ballad “On A Wicked Night”, brano scelto come singolo e in cui il cantante si supera ancora una volta nelle vesti di un paradossale crooner dannato, riporta alla mente persino le atmosfere di una canzone quale “Devil’s Plaything”, presente sul capolavoro “Lucifuge”.

“Deth Red Sabaoth” non è un capolavoro e porta su di sé parecchi interrogativi. Fra questi, il più ovvio e scontato è il solito: l’ex leader dei Misftis l’avrà composto per genuina ispirazione oppure un prodotto così retrò gli serve per pagare le bollette? Quanto è spontaneo e quanto è studiato a tavolino per far breccia fra i vecchi fan? Domande alle quali non ci sarà mai risposta. Quello che conta è che l’artista americano sia tornato a fare quello che sa far meglio, ossia metal virato blues, potente e tenebroso. Il passato è irripetibile, eppure oggi Danzig è tornato convinto dei propri mezzi e in salute (artistica), e il suo nono studio album merita più di un attento ascolto.

Stefano Masnaghetti

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