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I Fear Factory sono un gruppo che è invecchiato male. Più passa il tempo e più questo appare evidente e difficilmente confutabile, purtroppo. Ovviamente i capolavori che scrissero negli anni Novanta rimangono intoccabili, e col trascorrere degli anni e delle mode album come “Soul Of A New Machine” e “Demanufacture” continuano a risplendere di sinistri bagliori metallici e a segnare pesantemente il corso della musica dura: basti pensare a quante band, oggigiorno, utilizzano la trovata di alternare scream e voce ‘pulita’ all’interno dello stesso brano, soprattutto in ambito metalcore/post – hardcore. Il debito che le nuove leve hanno nei loro confronti è gigantesco.
Il problema del gruppo californiano è proprio questo: non esser mai riuscito a svincolarsi dal potente assunto di base. I Nostri ci hanno provato, prima inglobando influenze nu metal (Digimortal), poi spostandosi verso una sorta di pop metal MTV oriented (Transgression). Sfortunatamente per loro, sono riusciti a scontentare tutti, sia la critica sia i propri fan. Solo il manieristico “Archetype” è riuscito nell’impresa di accontentare il pubblico, proprio perché si trattava di un disco devoto al tipico sound creato dalla Fabbrica della Paura. Ma già allora, priva di Dino Cazares, la formazione pareva incapace di evolversi, schiava di un passato troppo glorioso, soverchiante.
Oggi il chitarrista di origini messicane è tornato, e ha portato con sé nientemeno che Gene Hoglan quale rimpiazzo di Raymond Herrera dietro le pelli. Tuttavia, nonostante una line – up di alta caratura, “Mechanize” non convince del tutto. È meglio precisare subito che non si tratta di un brutto album, e paragonato all’orribile “Transgression”, il punto più basso nella carriera dei Fear Factory, vince a mani basse. Semplicemente, Cazares non ha voluto rischiare nulla, ma proprio nulla, e insieme ai suoi ritrovati compagni ha composto dieci pezzi ancorati in tutto e per tutto al vecchio stile. Se già “Archetype” somigliava a una copia degli originali, “Mechanize” può esser visto quale copia della copia. L’unica, vera differenza la fanno i tempi quasi sempre rapidissimi, una velocizzazione del suono che porta a un cyber – thrash sparato a mille e ricco di blast – beat (cfr. “Powershifter” e “Christploitation”, fra le altre). Gli up – tempo son sempre stati caratteristica del quartetto, ma in questo caso l’acceleratore è stato schiacciato più del solito. Per il resto, l’utilizzo dell’elettronica è quello di sempre, la voce di Burton C. Bell è ancora ottima, ma l’alternanza fra ruggiti e canto ‘alieno’ non è mutata di una virgola, e la presenza di Hoglan non si nota affatto, perché i pattern di batteria sono identici a quelli che eseguiva Herrera.
Non è mai facile giudicare uscite di questo tipo. Probabilmente “Mechanize” non faticherà a farsi apprezzare ai fan; anzi, è prevedibile che da molti verrà considerato il miglior lavoro dei Fear Factory dai tempi di “Obsolete”. Certo, in qualche episodio si può ancora percepire l’alienazione robotica che fece grandi i primi capitoli del complesso (la title – track, “Industrial Discipline”), ma ormai siamo fuori tempo massimo, e certe sonorità riproposte nel 2010 non graffiano né intimoriscono più come nel 1995. Una buona prova di routine da parte di chi ha iniziato da innovatore assoluto e si avvia a concludere la propria carriera su posizioni conservatrici. Non c’è niente di male in questo, bisogna però accettarlo e riconoscerlo.
Stefano Masnaghetti