Eccoci all’appuntamento globale totale, come direbbe Felice Caccamo. Vediamo rapidamente cosa è “sfuggito” , a volte per scelta, a volte per necessità, alle recensioni singole della sezione, buttandoci in un volo pindarico azzardato tra sottogeneri e gruppi quasi tutti dotati di nome.
Partiamo da una virtuale power zone anche se il primo gruppo che nominiamo ha deciso di sdoganarsi definitivamente da questo filone. A inizio anno gli Edguy di Tobias Sammett hanno pubblicato “Rocket Ride” ed è innegabile notare che i giovani cloni degli Helloween del tempo che fu sono oramai cresciuti e maturati, arrivando a pubblicare un disco heavy che tende spesso all’hard rock melodico di classe. Per molti emblema del power europeo becero di anni passati, i ragazzi raggiungono uno status di tutto rispetto con questo platter, smentendo e lasciando stupito chi non pensava avrebbero avuto tutta questa fortuna. Meritatissima oltretutto. Sia chiaro, ci sono momenti frivoli e alcuni banalotti, la qualità però contenuta nelle 13 tracce è elevata.
I Sonata Acrtica invece ci tengono al power europeo becero e sfornano un cd+dvd live, “For The Sake Of Revenge“, che farà la gioia degli aficionados della band e non mancherà di far sorridere chi detesta le voci da castrato e le tastierine che fanno firulìfirulìfirulà. Scherzi a parte i finlandesi si sono guadagnati il rispetto di schiere di fans del power e questo prodotto non è altro che la celebrazione di un successo che è andato in crescendo nel nuovo millennio.
Parlando di melodie molto meno power ma heavy oriented, troviamo “Burden Of Truth” dei Circle II Circle, gruppo del bravo Zak Stevens. Il concept è ispirato al Codice Da Vinci ed è un onesto lavoro fatto di mestiere e non eccessiva ispirazione. Visto il sovraffollamento spaventoso del mercato, un prodotto ben suonato è purtroppo al giorno d’oggi poco significante in un panorama così denso di uscite se non addirittura oscurato da release più scadenti. Comunque la musica, quella che conta, in questo disco è valida, ovviamente lontana dai fasti dei Savatage che molti ascoltatori avranno chiaramente in mente mentre ascolteranno il disco dei C2C.
Passiamo all’interno delle nostre mura, con i Rhapsody Of Fire, realtà che ha un seguito significativo in Europa e Oriente, mentre in Italia si trascina dietro pregiudizi e preconcetti che, vista la rispettabile carriera del gruppo di Turilli, oramai lasciano il tempo che trovano. Il nuovo “Triumph Or Agony” conferma la band tra i leader del symphonic metal, che insiste anche su mid tempos classici di stampo ottantiano, oltre a confezionare momenti epici di altissimo livello, dai titoli lunghissimi, che pochi nomi della scena sono in grado di incidere. Pollice su quindi, per un gruppo che deve imporsi ad alti livelli anche on stage nel nostro paese.
C’è poco di orchestrale ma molto degli anni ottanta, nel ritorno dei Riot “Army Of One“. Un’uscita che passa sotto silenzio ma che farà sobbalzare nostalgici di vario tipo e che farà godere parecchio anche gli hard rockers. L’apertura con la title track del disco riporta a “Thundersteel” ed è bello sentire Mike DiMeo e Mark Reale ancora in pista con questa carica. Il buon valore del disco è testimoniato anche dalle aperture blues di “Alive In The City” e dalla più pacata “Helpin’ Hand”. Platter vario e gradevole, l’esperienza conta. Parlando di esperienza, citiamo “A Light In The Dark” dei Metal Church. Della line up di una volta rimane poco, ma il disco è tutto sommato godibile: insomma, niente di miracoloso, ma qualcosa che lascia comunque contenti di aver ancora a che fare con Kurdt Vanderhoof.
Saltone per le carte di identità per parlare del nuovo “Threshold” degli Hammerfall. Il solito disco in sostanza, heavy convinto e coerente e pure palloso se confrontato con la produzione standard di Cans e compagni. Alla fine servono anche loro per carità, a poche persone, ma servono anche loro, il fatto è che tutto è stato già detto con “Glory To The Brave” e confermato qua e là nei dischi successivi, la tradizione dell’heavy verrà pur tenuta in vita anche dagli svedesi, che però di propria sponte non hanno messo proprio niente.
Restiamo in campo classic, con qualche spolverata di thrash: questo l’esordio dei Beyond Fear del buon Tim Owens. Un disco maledettamente moderno e chiaramente old style. La scream machine si conferma un cantante davvero valido e il suo progetto parte col piede giusto. Chiaro che farà la fine degli Hammerfall se non proverà qualcosa di diverso, come fece coi Priest nel sottovalutato “Jugulator”, Owens si prende comunque la sufficienza piena anche se è un peccato vederlo costretto in una realtà che gli va davvero stretta.
Avendo nominato il thrash con Ripper, andiamo ora a parlare di un gruppo che da troppo tempo non si faceva sentire: i Sadus di quell’istrione di Steve Di Giorgio. Il tempo di “A Vision Of Misery” non tornerà mai più, tuttavia l’album “Out For Blood” è davvero ben suonato e si candida a essere una delle migliori, se non la migliore uscita thrash dell’anno (2006 che è stato davvero povero e avaro di dischi da segnalare parlando di thrash metal puro). Un prodotto onesto e suonato alla grande da un trio che ha raccolto molto meno di quanto meritasse. Bentornati!
Ricaviamo spazio tra due nomi importanti per i Raise Hell, che con “City Of The Damned” mettono sul mercato un album niente male, che richiama certe sonorità Us thrash care agli Overkill. Da tenere sotto controllo per il futuro.
Torna anche lo zio Tom con i suoi Sodom. Il disco è self titled e non è esattamente il migliore che ci si potesse aspettare. Intendiamoci, sempre mazzate sono, questo è thrash crucco a nastro. La sensazione però è che l’ispirazione sia un attimo in calando, qualche pezzo che non convince c’è e la sensazione del compitino aleggia pericolosamente nelle tracce del platter. Che poi ad Angelripper e compagni non freghi nulla è un altro discorso, d’altronde le battute a vuoto possiamo anche perdonarle a chi ha costruito la scena europea del thrash insieme a Kreator e Destruction (i quali però sembrano dormirsela anche loro visti i dischi dell’anno scorso…).
Non dimentichiamoci il nuovo “100% Hell” dei nostrani e bravissimi Necrodeath. Il thrash da sempre rivolto verso territori ben più estremi come il death o il black, trova in questo disco nuove soluzioni, rallentamenti e una varietà insospettabile per una band che ha fatto dell’aggressione frontale il proprio trademark durante la propria evoluzione nel corso del tempo. Davvero un lavoro valido e superiore a “Ton(e)s Of Hate”.
Andiamo alle origini ora, con il ritorno di Celtic Frost e Venom, due nomi di
fronte ai quali sarebbe sufficiente prostrarsi e tacere per quanto fatto negli eighties. E’ vero che negli anni successivi ne hanno fatte di porcate anche loro, è vero che oramai sono vecchi rintronati ma è vero che senza di loro saremmo a parlare d’altro. Diamo quindi a “Monotheist” e “Metal Black” (titolo originalissimo eh?) tutta l’attenzione che si meritano. Warrior e soci spiazzano tutti, producendo un disco che è lunghissimo, che ha al suo interno schizzi thrash, una prevalenza di doom con echi gothic che fanno capolino qua e là, quasi a voler includere in un disco alcuni dei movimenti effettuati dalla band (e anche dagli Apollyon Sun) che ha influenzato tantissimo quella che diventerà la scena death e black metal. Un platter di non facile comprensione, che determinerà odio o amore senza molte vie di mezzo. Inutile dire che se sul palco i Celtic paiono ancora non al top della forma, il disco che hanno prodotto è sicuramente interessante e coraggioso. Poco coraggioso invece il ritorno dei Venom. Poco coraggioso non significa schifoso ovviamente, il risultato di anni di attesa è semplicemente un album con una produzione anni ottanta che più ottanta non si può, e dei brani che più retrò non si può. Molti hanno gridato allo scandalo, e la delusione ha sostituito l’attesa per il come back di Cronos. Onestamente non so chi pensava che i Venom potessero ancora buttare sul mercato un disco che facesse gridare al miracolo; gli anni passano per loro, Judas Priest e molti altri, Motorhead e Maiden stanno dimostrando di invecchiare meglio di alcuni, ma che problema c’è? Il disco è decente, non inventa nulla (loro hanno già inventato nel 1981), ed è pieno di attitude che fa la differenza tra un gruppo importante e un gruppo e basta; l’unico difetto è la durata, questa sì, molto poco anni ottanta.
Parlando di gruppi importanti torniamo rapidamente in patria, per parlare di una band come i Death SS, che ha pubblicato “The 7th Seal“, album che ritrova vecchie sonorità e le unisce alle tastiere recuperando però al massimo le chitarre. Molti temevano che la definitiva svolta industrial sarebbe arrivata con questo disco; ciò non è avvenuto e la band di Sylvester ha pubblicato uno degli episodi migliori degli ultimi anni di carriera, bilanciando bene la miscela heavy/hard rock moderno che caratterizza il prodotto in questione.
Terminiamo la rassegna ‘vecchiacci’ con due prodotti ottimi sotto ogni punto di vista. Uno è il best of dei Pentagram, intitolato “First Daze Here Too“, dedicato al periodo settantiano della band, prima ancora che il doom metal caratterizzasse le release dei nostri. I seventies e il rock, il blues e il funk di allora sono presenti in questo doppio cd che potrebbe far scoprire a molti una band che molti conoscono solo per “Day Of Reckoning” del 1987. Da non perdere invece, sempre per gli amanti del doom ma anche del metal in generale, la ristampa del debut album dei Trouble, intitolato all’epoca, in un secondo momento in verità, “Psalm 9“. Un vero e autentico gioiello, uno di quei dischi poco noti ma che hanno qualità da vendere e che sono ancora attuali nei nostri giorni.
Passiamo ora a sonorità diverse, più tirate e tecniche come nel caso degli Zero Hour, dense di elettronica e sound moderno, Raunchy e Dagoba, figlie di un passato crossoveriano oramai defunto, Soil, e testimonianza live di un tour fortunatissimo come nel caso dei Children Of Bodom. Partiamo dalla fine, ovvero con Lahio e soci che con “Stockholm Knockout Live” pubblicano un cd/dvd di buona qualità. Oramai i bimbi non sono più tali, sul palco ci sanno fare e sono dei professionisti che si sono presi a forza un posto importantissimo nella scena.
Restando in Scandinavia, parliamo di Danimarca e di Raunchy. “Death Pop Romance” dice tutto con il titolo. Siamo di fronte a un accattivante disco di heavy moderno, influenzato dalla lezione di In Flames e Soilwork, che ha ritornelli pulitissimi e da TRL live request. Per chi ama certe sonorità è impossibile restare indifferenti di fronte a questo buon lavoro. Gli altri potrebbero trovare soddisfazione con “What Hell Is About” dei Dagoba, album che richiama tantissimo Fear Factory e simili. L’originalità è relativa, ma i francesi sono buoni interpreti, il prodotto è interessante e chissà che in futuro non riservino sorprese ancor più degne di nota.
Concludiamo questo riepilogo enorme con un paio di mezze delusioni. Gli Zero Hour tornano con “Specs Of Pictures Burnt Beyond“. I tedeschi sono uno dei gruppi tecnicamente più dotati degli ultimi anni, ma non hanno ancora trovato il modo di utilizzare la loro abilità al servizio del brano singolo. Se in passato avevano entusiasmato con “The Towers Of Avarice”, a questo giro lasciano l’amaro in bocca per un lavoro complicato e strutturatissimo che però poco altro offre se non dimostrazioni di tecnica troppo fine a sé stessa. I Soil invece, con “True Self“, tornano in azione dopo un periodo abbastanza difficile. Le promesse di “Scars” si sono perse per strada, il nuovo lavoro con Aj Cavalier dietro il microfono non è male, potrebbe essere una nuova partenza per loro, dopo che la scena “nu-metal” è collassata lasciando a piedi moltissime bands dipinte come fenomeni, riservando l’onore delle scene a Korn, ‘knot e System.
P.N. & J³