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Col precedente “Declaration” di due anni fa il combo di Orange County aveva dato una gran bella prova di coraggio, decidendo di uscire con un disco metalcore che si discostava alquanto dai soliti schemi triti e ritriti del genere. Atmosfere cupe e oscure, tastiere azzeccate, riff black e death mischiati a breakdown, ma soprattutto il mixaggio ad opera di Mr. Devin Townsend avevano donato una veste tutta nuova a una delle band più in palla del panorama ‘core.
Questo album omonimo è la legittima continuazione di “Declaration” (e forse anche la definitiva direzione in cui i Bleeding Through vogliono proseguire), anche se purtroppo stavolta la produzione è leggermente carente dal punto di vista dell’impatto, fattore in questi casi indispensabile (ma del resto il paragone con ciò che Townsend era stato capace di fare è impietoso). Continuazione, dicevamo: poche le sorprese, qui si parla semmai di perfezionamento e di limatura, in fondo il vero salto (stilistico e qualitativo) è stato compiuto nel 2008; aspettatevi quindi quello che si potrebbe ormai chiamare “black-core” assieme a dosi di modern thrash, e, a riprova che la qualità in fase di composizione è in continuo miglioramento, assoli veri e propri.
Il cantato pulito è usato ancora una volta occasionalmente (sono lontani i tempi di “The Truth” e dei suoi ritornelli fatti per piacere ad un vasto pubblico), ulteriore elemento di rottura rispetto ai classici canoni metalcore, ma proprio per questo evita di stancare quando proposto, risultando invece gradevole.
Un album destinato ad allontanare ulteriormente i vecchi fan, ma va fatto un plauso alla band californiana per aver deciso di rischiare, decidendo di non piegarsi al solito metalcore schiavo degli standard di mercato o rifiutando di banalizzarsi con un deathcore che ormai dice altrettanto poco. Le basi per una onorata e duratura carriera ci sono tutte.
Nicolò Barovier