Orphaned Land All Is One

Orphaned Land All Is One
E prima o poi doveva succedere, “All Is One” è il primo lavoro degli Israeliani a lasciarmi tiepido. Cosa succede? Difficile dirlo, ma di sicuro l’abbandono di Matti Swatizki, storica chitarra della band, c’entra qualcosa. Nel disco funzionano molto bene le orchestrazioni, anzi, mai state migliori probabilmente, funziona benissimo la voce di Kobi Farhi, che per quest’album ha deciso di abbandonare il growl, funzionano come sempre i testi, a non funzionare invece è la decisione di delegare quasi totalmente agli archi quelle particolari partiture che un tempo erano appannaggio delle chitarre.
Dove sono i meravigliosi riff arabeggianti? Dove quel modo unico di legare non solo sullo spartito tradizioni musicali diverse e lontane? Dove quelle partiture complesse ma perfettamente assimilabili? Dove la personalità? Dove i giochi di arrangiamento fra le chitarre? Ed eccoci finalmente davanti al gigantesco punto nodale: “All Is One” potrebbe essere un disco di uno qualsiasi dei loro imitatori (benché sotto una bella dose di anfetamine).
Da una parte ci sono basi metal e dall’altra ci sono innesti etnici suonati con strumenti buffi e archi. I livelli restano separati e quasi sempre sovrapposti, senza incrociarsi, senza rincorrersi, senza mischiarsi, senza compensarsi. E l’assenza di gagliardi riff di chitarra fa il resto.
Ed è un vero peccato, perché la qualità, in termini di scrittura dei brani non manca: prendete “Simple Man“, la ballad “Brother” (l’arrangiamento di archi è da lacrime), la strumentale “Freedom” memore di “El Norra Alila“, l’aggressività di “Fail“, “Let The Truce Be Known“, “All Is One” con quei cori potentissimi, ma non è abbastanza, perché nefaste scelte di arrangiamento soffocano quella che un tempo era la magia degli Orphaned Land. Come se tutto questo non bastasse, il tutto annega in una produzione a tratti caotica, con chitarre un po’ troppo rarefatte il cui unico pregio è farci finalmente sentire per bene il basso di Uri Zelha.
Insomma, nel nobile tentativo di semplificare il proprio suono, di cercare nuovi sbocchi ed evitare ripetizioni, gli Orphaned Land inciampano in un lavoro non del tutto a fuoco che ci lascia con una manciata di sabbia in bocca e con la speranza che la tempesta ritorni presto ad infuriarci nel petto.
Stefano Di Noi
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