Bliss In Concrete – City Of Echoes – Spaceship Broken / Parts Needed – Wind With Hands – Dead Between The Walls – Lost In The Headlights – Far From The Fields – A Delicate Sense Of Balance
www.hydrahead.com/pelican
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Pare che per l’ensemble di Chicago il processo d’involuzione stia divenendo inarrestabile. Se “Australasia” aveva fatto gridare al miracolo, tanta era stata la bravura del complesso nel sintetizzare post – rock, postcore e sludge in un unico disco, già il successivo full “The Fire In Our Throats Will Beckon The Thaw” lasciava presagire uno sconfortante calo d’ispirazione.
Purtroppo “City Of Echoes” conferma il cattivo stato di salute dei Pelican in particolare e del rock strumentale in generale. Sparite del tutto le influenze più pesanti e metalliche (niente più riferimenti a Neurosis, Isis e Cult Of Luna, per intenderci), le otto tracce che compongono l’album si caratterizzano per la totale deriva verso un post – rock esangue e di maniera: esecuzioni impeccabili ma anonime, grande cura dei particolari ma nessuna idea degna di questo nome. Adesso le influenze principali si chiamano Explosions In The Sky, Mogway (quelli più progressivi), Red Sparowes (nei loro momenti più eterei) e perfino qualcosa dei June Of 44 (cfr. l’acustica “Wind With Hands): d’accordo, tutti fior di nomi; peccato che i Pelican non ci mettano nulla, ma davvero nulla del loro. Alcuni brani fanno quasi tenerezza, nel loro tentativo di ribadire strutture sonore già utilizzate e ascoltate fino allo sfinimento negli ultimi dieci anni. Tutto appare levigato e pacificato, ma anche terribilmente prevedibile e niente affatto interessante: di questo clima sterile e monotono ne risentono anche gli episodi maggiormente riusciti, quali “Spaceship Broken – Parts Needed” (forse l’unica composizione degna di essere ascoltata con attenzione più e più volte) e la conclusiva “A Delicate Sense Of Balance”.
Sopra tutto: è il concetto alla base che stona. Non è ammissibile che musicisti cosiddetti “d’avanguardia”, per i quali trovare nuove vie espressive dovrebbe essere l’obiettivo di una carriera, finiscano per fare l’opposto, ossia codificare un approccio inamovibile e normativo alla materia sonora che trattano.
Credo che simili dischi possano interessare solo ai fan più accaniti di tali sonorità, per tutti gli altri il mio modesto consiglio è quello di non buttar via i propri soldi per un supporto fonografico destinato a prender polvere dopo pochi ascolti.
S.M.
“Odio i metallari”. Pensavo di sussurrarlo. Invece l’ho detto forse a voce troppo alta, per il volume delle cuffie e non riuscivo a regolarmi sullo standard per non farmi ascoltare dai vicini. Il tram era quasi vuoto, e sul fondo c’erano sedute solo tre persone vicino a me. Si sono girati contemporaneamente una signora sui 60 alla mia destra che mi ha guardato sconsolata, e un tizio seduto quattro seggiolini davanti a me. Questo figuro era vestito di nero, con una specie di vestaglione di simil lattice nero con qualcosa stampato sopra, capelli lunghi e contorno occhi nero. Ho guardato entrambe le persone mentre ero a metà disco dei Pelican. Il tizio non ha smesso di fissarmi fino all’ultimo pezzo di “City of Echoes”. Io continuavo a far finta di niente, guardando fuori dal finestrino. Questo disco era stato davvero una delusione. E questa delusione la stavo consumando sul lungo percorso del tram 19. Nei due album precedenti la band americana aveva costruito intorno a sé una musica strumentale granitica, metallica e di derivazione psichedelica ed onirica. Di qualità. Il cosiddetto post metal, in poche parole. Ovvero quando certo metal rallentato, ossessivo e doom ha trovato nel post rock più massiccio un corpo da scoparsi per far nascere questo figlio. Lasciando da parte i padri-Neurosis, i Pelican hanno dimostrato la pacatezza chirurgica, la compostezza e l’apertura mentale matura per far crescere questo “figlio”. Gli Isis hanno portato con un album eccelso (“Panopticon”) questo suono alle orecchie di un vasto pubblico, superando i confini del genere (dall’indie al metal più stretto).
Guardavo il tizio che mi fissava. Il disco dei Pelican non era all’altezza di “Australasia” e “The Fire in Our Throats Will Beckon the Thaw”. Per niente. Moscio e sciapito. Pezzi meno solidi, più annacquati, con delle digressioni dimenticabili nel giro di un minuto. Ero sceso dal tram seguendo con la coda dell’occhio il tizio che mi fissava di là dai vetri della porta apribile. Facevo no con la testa. Il disco risultava piatto, con idee trite e ritrite, privo di carica epica, troppo asciutto in fin dei conti e poi senza picchi di suggestione emotiva.
Ho salutato distrattamente con la mano il tizio che si allontanava nel tram e mi sono chiesto “Siamo già ad un punto di non ritorno di questo genere, dopo la mezza delusione degli ultimi Isis?”
L.F.