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Gli Acid Mothers Temple, guidati dall’inossidabile Makoto Kawabata, sono ormai da quasi tre lustri i più fieri e sconsiderati assertori del trip lisergico e dello sballo acido. In fondo hanno sempre avuto le idee chiare, e il loro iter artistico non ha mai fatto intravedere svolte significative; per tutta la carriera hanno semplicemente ripreso suoni e immaginario dalle esperienze ‘psycho freak’ di fine Sessanta/inizio Settanta, setacciando acid rock, musica cosmica e tutto quanto poteva essere considerato, ai tempi, estremo, sperimentale e ‘deviante’, per poi calcarci la mano e allestire epici deliri sonici detonati nel modo più spettacolare e grandioso possibile.
Privo di ogni misura e ritegno, perso nei meandri di colossali composizioni devote a band come Amon Duul II, Hawkwind, Faust, Grateful Dead, Tangerine Dream e Pink Floyd, l’ensemble giapponese ha però saputo scrivere dischi fenomenali (“Pataphysical Freak Out Mu!”, “Univers Zen Ou De Zero A Zero” e “Crystal Rainbow Pyramid Under The Stars” fra questi), accanto ad altri solo discreti (mi vengono in mente “Anthem Of The Space” e “Mantra Of Love”), per poi cadere di tanto in tanto in clamorosi scivoloni, l’ultimo dei quali può esser considerato lo sbiaditissimo “Interstellar Guru And Zero”. Inevitabile scotto da pagare per chi pubblica dischi a getto continuo. Eppure, nel panorama della neo psichedelia, gli Acid Mothers Temple continuano ad essere necessari, poiché nessuno meglio di loro riesce a interpretare l’improvvisazione freak più selvaggia e libera da freni inibitori.
Il pretesto per parlare di loro mi è stato dato dalla recente pubblicazione di “In O To Infinity”, uscito sotto la sigla Acid Mothers Temple & The Melting Paraiso U.F.O., quella più utilizzata e famosa. L’album consta di quattro tracce di 18 minuti ciascuna, le quali mostrano il volto più delicato e cosmico della band, ricchissime di richiami ai grandi gruppi kraut rock.
“In O”, il primo brano, inizia con una sospensione astrale di synth degna dei Tangerine Dream, per poi evolversi in sibili galattici e, con l’ingresso della batteria, assumere un andamento alla Neu! e poi spegnersi come una supernova. “In A” è una sinfonia per voci in loop, sussurri indistinguibili e fondali sonori in lento mutamento, rotti qua e là da improvvise scosse noise. Le interferenze rumoriste prendono il sopravvento nella successiva “In Z”, simulando del magma ribollente eruttato da vulcani di qualche pianeta disperso nella Via Lattea, mentre un ossessivo riff di chitarra si protrae per tutta la durata del pezzo. Chiude “In Infinity”, ennesima improvvisazione allo stato brado, aperta da lontani squilli di tromba e successivamente propulsa da batteria e organo hammond, il quale dona un tocco pinkfloydiano alla composizione (periodo “A Saucerful Of Secrets”), mentre tutt’intorno c’è il consueto agitarsi di echi e ronzii, sui quali s’inseriscono perorazioni di fiati free jazz e improvvise aperture delle chitarre. Probabilmente si tratta del miglior brano del disco.
“In O To Infinity” rimane a debita distanza dai capolavori citati qualche riga sopra, ma non è neppure una pubblicazione scadente. Diciamo che si attesta nella media della band, quindi tutti i fan dovrebbero averla. Per gli altri il consiglio è di darci comunque un ascolto, la musica degli Acid Mothers Temple è sempre interessante.
Stefano Masnaghetti