Slipknot – .5: The Gray Chapter

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Il nuovo disco degli Slipknot è l’incontro di ego ingombranti e idee diverse. E’ il risultato di litigate, indifferenza, disperazione e split imprevedibili (Jordison, per capirci). Se il precedente “All Hope Is Gone” era studiato al centimetro per essere l’ideale punto d’incontro tra violenza iconoclasta e melodie ruffiane di Stone Sour-iana memoria, “.5: The Gray Chapter” è completamente schizofrenico, senza direzione predefinita e, per questo, piuttosto imprevedibile. Sono tornati qua e là passaggi rappati e le campionature che facevano uscire pazzi i giovani e incazzare puristi del metallo a inizio millennio. Ci sono ovviamente le parti pulite, i momenti devastanti e momenti talmente cupi e oscuri da rasentare il doom.
Tutto questo casino funziona a patto che siate concentrati sul disco. Altrimenti arrendetevi, non ci capirete niente. Dopo l’intro fulminato (ma deliziosamente melodico) e l’assalto di “Sarcastrophe”, arriva “AOV”, fucilata pazzesca che contiene uno dei ritornelli più easy di tutto il platter, con tanto di interludio soft e ai limiti dell’alternative rock. Il tutto in mezzo a ritmiche ossessive e growl provenienti dal periodo “Iowa”. “Killpop” è un altro paradosso, finisce in bordello ma è sostanzialmente uno dei pezzi più pop (appunto) mai composti dagli Stoneknot (…). “Skeptic” e “Lech” di contro fanno immediatamente (e violentemente) marcia indietro dal brano che le precede. “Goodbye” è il lacerante tributo a Paul Gray (alla cui memoria è evidentemente dedicato l’album), che sfocia a sua volta in una ancora più incazzata “Nomadic”, le cui parti di batteria ci fanno realmente chiedere se Joey sia ancora dietro al kit o se, come sembra, Jay Weinberg, figlio di Max, batterista della E-Street Band, sia davvero così bravo.
Giunti a questo punto si inizia a essere stanchi. Qualche filler si accoda al singolo-pacco “The Devil In I”, “Custer” è l’episodio più estremo del cd, anche se alla lunga stanca. “The Negative One” la conosciamo già tutti, e a dire il vero non me l’aspettavo così in fondo alla tracklist. La conclusiva “If Rain Is What You Want” chiude la versione standard in modo quasi claustrofobico, anche se “The Burden” (la trovate nella special edition) fa ancora di meglio, raggiungendo vette di inquietudine e furiosa rassegnazione che avrebbero dovuto trovare spazio ben prima.
In sostanza, questo lavoro piacerà ai fan della band, felici di avere ancora materiale inedito (complessivamente di buona qualità) da ascoltare; quindi sarà certamente un successo in classifica e riporterà il combo a rivaleggiare con gli Avenged Sevenfold, nuovi alfieri del metallo moderno americano.
Gli Slipknot, per lo meno dall’esterno, pare abbiano smarrito quella direzione univoca e condivisa, nichilista e folle che li portò al successo con i dischi del 1999 e del 2001. “The Gray Chapter” rimarrà inevitabilmente un punto d’arrivo, almeno in studio. Detto questo, il disco contiene tutti i trademark dei Nostri assemblati alla meglio, in modo da accontentare le differenti correnti musicali presenti in una line-up tanto abbondante.

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