[Sludge/Doom Metal] Unearthly Trance – V (2010)



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Sinceramente pensavo che con l’ottimo “The Trident” (2006) fosse giunto il momento in cui gli Unearthly Trance esplodessero definitivamente, avvicinandosi, e nella considerazione dei fan e in quella della ‘critica’, a nomi divenuti ormai mitici nell’ambito del doom/sludge più pesante e claustrofobico. Evidentemente mi sbagliavo e stavo sopravvalutando le capacità di questa band statunitense (New York per l’esattezza). Infatti, non solo l’ensemble non fece mai tale salto di qualità, ma il successivo album, “Electrocution” (2008), risultò addirittura deludente, date le premesse. Insomma, gruppi quali Electric Wizard ed Eyehategod – per citarne due di molto affini ai Nostri – rimanevano (e rimangono) di ben altro spessore.

Con “V” il complesso guidato da Ryan Lipynsky prova a ridestare un po’ d’interesse attorno alla Trance Ultraterrena, e bisogna ammettere che gioca bene le proprie carte. Seppur privo di quella varietà che contraddistinse “The Trident”, il nuovo disco è davvero un buon lavoro, ricco di spunti piuttosto interessanti e dedito ad un’estremizzazione di quella lentezza mesmerica che negli ultimi anni si è fatta per loro sempre più preponderante. Le accelerazioni sludge – core presenti soprattutto nell’esordio “Season Of Seance, Science Of Silence” (2003) sono state bandite del tutto, al loro posto s’insinuano sonorità che possono ricordare certo funeral doom; è il caso dell’apripista “Unveiled”, che in alcuni passi s’avvicina a cadenze affini a quelle degli Esoteric, oppure di “Submerged Metropolis”, limaccioso ‘super doom’ in bilico fra i quasi sconosciuti – ma ottimi – Catacombs (recuperatevi “In The Depths Of R’Lyeh”, del 2006) e i più noti Cathedral, quelli di “In Memorium”. In tutto questo, però, gli Unearthly Trance allargano le proprie influenze anche in altre direzioni, pescando da Neurosis (Solar Eye) e affogando i loro feedback persino in territori drone, come testimoniano “Physical Universe Distorts” e, soprattutto, le agonie soniche presenti in “The Leveling”, la cui atmosfera mefitica risente dei Khanate.

Buon ritorno per il terzetto, senza dubbio. Ma questa volta non mi faccio trarre in inganno da un’opera che, per quanto ben fatta, rimane nell’ambito della piccola nicchia di ultra appassionati, non avendo nulla di particolarmente personale da esprimere. Così che la voce di Ryan, raccapricciante e lacerata come si conviene, ma niente affatto personale, è specchio attendibile di un complesso che, pur discreto, rimarrà sempre di seconda fascia. In ogni caso “V” rimane consigliato per chi in musica si ciba mane e sera di ultra lentezza catacombale.

Stefano Masnaghetti

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