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Con “Blessed Black Wings” e “Death Is This Communion” gli High On Fire avevano dato due notevoli scossoni all’assonnato panorama metal degli anni 00. Con la sua fusione a caldo tra stoner, doom, thrash e metal classico, il trio guidato dall’ex Sleep Matt Pike era riuscito ad entusiasmare chi nell’hard’n’heavy ricercava ancora l’impatto immediato e la semplicità formale, ma richiedeva anche un minimo di originalità e un groove al passo coi tempi. Esagitati, furiosi e barbarici, quei due dischi mostravano una ciclopica brama di pesantezza sonora, ottenuta aumentando i volumi, la velocità e la tensione dei brani fino a giungere al parossismo. Il nuovo “Snakes For The Divine” prosegue nella stessa direzione, tuttavia iniziano ad intravedersi i primi segni di cedimento.
Questo è decisamente l’album più rapido della band. Gli ultimi rimasugli sludge – doom s’incrociano quasi esclusivamente nelle ossianiche “Bastard Samurai” e “How Dark We Pray”. Il resto dei brani corre all’impazzata, e nel loro dna i geni di Motorhead, Iron Maiden, Slayer e Metallica sono in continua proliferazione. Così è per la title – track, arrembante esempio di commistione fra riffing heavy/power (in alcuni punti si scorgono persino Judas Priest e Running Wild) e maciullamenti stoner. “Frost Hammer”, brano scelto come singolo, rincara la dose, e si segnala più che altro per la citazione lovercraftiana doc dell’altipiano di Leng, che va così ad arricchire il loro truce immaginario fantasy. “Ghost Neck” è la più thrash del lotto, sorta d’incrocio tra Motorhead, Venom e Sodom. “The Path” è un breve interludio strumentale, mentre “Fire, Blood And Plague” e “Holy Flames Of The Fire Spitter” paiono più che altro un paio di filler che poco aggiungono al valore dell’opera.
Cos’è che pone “Snakes For The Divine” un gradino sotto ai suoi due predecessori? Innanzitutto una scrittura più prevedibile e meno interessante: la band s’è incaponita nella ricerca dello sfondamento a tutti i costi, e a lungo andare tale strategia rischia di risultare troppo scontata. Poi, alcuni spunti che potrebbero risultare persino pregevoli se usati con più parsimonia, vengono sfruttati troppo e troppo a lungo: è il caso degli oltre otto minuti della title – track e di “How Dark We Pray”. Infine, Pike esagera nel piazzare assoli piuttosto fuori luogo nell’economia delle varie canzoni, e il suo latrato roco, via di mezzo fra Lemmy e Angelripper, alla lunga finisce per esser troppo monocorde e mal si adatta ai cambi d’atmosfera (tra l’altro sembra che abbia subito un’involuzione vocale).
Precisiamo che stiamo comunque parlando di un signor gruppo, fra i migliori esempi di come si possa suonare metal dal fascino retrò e risultare tuttora credibili. Ma dai più dotati ci si aspetta sempre il capolavoro, o quantomeno qualcosa che gli si avvicini; e invece questa volta ci dobbiamo accontentare di un disco discreto e nulla più.
Stefano Masnaghetti