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“Gateways”, il singolo di lancio di “Abrahadabra”, aveva gettato parecchie ombre sulla bontà dell’ottavo (nono se si considera “Stormblåst MMV”) album in studio dei Dimmu Borgir. Tacendo delle voci che vorrebbero un Vortex protagonista ‘in disguise’ nelle clean vocals del suddetto brano (ricordiamo che sia lui sia Mustis hanno lasciato, rimpiazzati rispettivamente da Snowy Shaw e Daray), e non dubitando dell’effettiva presenza della pur brava Agnete Maria Forfang Kjølsrud (Animal Alpha) nel singolo, quello che comunque destava molte perplessità era proprio la pochezza musicale dello stesso: la voce della cantante appariva del tutto fuori contesto, mentre l’atmosfera ibrida fra il sinfonico e l’industrial, con tanto d’inutile assolo di chitarra piazzato nel mezzo, pareva mostrare un definitivo crollo dell’ispirazione. Se “Gateways” doveva servire quale presentazione del disco, allora ci si aspettava il peggio.
In realtà l’inferno non è brutto come lo si dipinge, e “Abrahadabra” è complessivamente un buon lavoro. Probabilmente il loro più ambizioso di sempre. Ispirato nel titolo e in alcune sue suggestioni dal “The Book Of Law” di Aleister Crowley, a livello musicale presenta il più massiccio sforzo orchestrale nel quale i norvegesi si siano mai cimentati: hanno fatto le cose davvero in grande stile, sfruttando l’orchestra della radio norvegese e lo Schola Cantorum Choir per rendere i dieci nuovi pezzi il più magniloquenti possibile. Così, l’opera appare una sorta di sintesi fra “Puritanical Euphoric Misanthropia” (2001) e “Death Cult Armageddon” (2003) resi in chiave sinfonica; quest’ultima è talmente accentuata che potrebbe far tornare alla mente certe atmosfere dello splendido “Communion” (2008) dei Septic Flesh, anche se nel nostro caso non si raggiungono certo tali livelli di genialità.
L’uso spasmodico della massa orchestrale e i continui inserimenti del coro rappresentano contemporaneamente la forza e la debolezza dell’album: quando questi elementi vengono impiegati per esaltare l’epicità di un brano, come nel caso di “Dimmu Borgir” (titolo non scelto a caso, dato che si tratta della traccia più vicina alle atmosfere degli esordi), oppure per enfatizzarne l’oscurità, come nell’intro “Xibir” o in “Ritualist”, tutto funziona a meraviglia; i problemi invece sorgono quando gli stessi arrangiamenti pomposi servono a mascherare le poche idee contenute nei pezzi: succede in “A Jewel Traced Through Coal”, in cui i cori operistici ‘risolvono’ lo stallo nel quale la canzone si era andata a ficcare, o ancora nella conclusiva “Endings And Continuations”. Per il resto, sono i soliti Dimmu Borgir: a riff tuttora black metal si alternano aperture death metal e, spesso, persino vicine all’heavy classico (cfr. “Born Treacherous”), che a volte danno l’impressione di esser state ispirate dagli ultimi Satyricon; anche l’elettronica fa capolino, fornendo ritmi quasi ‘ballabili’ all’inizio di “The Demiurge Molecule”, oltreché nella già citata “Gateways”.
Questi sono i Dimmu Borgir targati 2010, prendere o lasciare. Di certo “Abrahadabra” è lontano dal livello dei primi capolavori (ma qualcuno ne dubitava davvero?), ma va comunque dato atto al trio Shagrath – Silenoz – Galder di essersi impegnato duramente e di aver composto un LP nettamente superiore allo scialbissimo “In Sorte Diaboli” (2007). Con riserve, ma promossi.
Stefano Masnaghetti