Triptykon, Melana Chasmata

Triptykon Melana Chasmata
Melana Chasmata” è un album ispirato. Molto ispirato. La seconda fatica dei Triptykon prosegue il discorso intrapreso con “Eparistera Daimones” (2010), e non dimentica neppure le intuizioni contenute in “Monotheist” (2006) dei Celtic Frost, ultimo disco della leggendaria band nonché opera troppo sottovalutata. I fan degli autori di “Into The Pandemonium” possono gioire della nuova formazione di Tom G. Warrior, poiché i Triptykon non fanno per nulla rimpiangere le vette di genialità toccate dal vecchio complesso. Semplicemente, l’arista svizzero è cresciuto, e così le sue visioni di mortalità sono mutate nelle sfumature, non nell’essenza. Quello che si vuole sottolineare è l’assoluta qualità delle nove tracce qui contenute: non un calo di tono, non una disattenzione e neppure qualsivoglia accenno di sciatteria minacciano la riuscita di “Melana Chasmata”. Che si prospetta fin da subito come una delle uscite metal essenziali del 2014.
La qualità più eclatante del lavoro è la sua stratificazione. Sulle prime, potrebbe apparire come un monolite di putrido thrash/death proto – black rallentato grazie a copiose dosi di sulfureo doom metal. E infatti brani come “Tree Of Suffocating Souls” (il più veloce del lotto, con tanto di assolo esotico sovrapposto ad un altro molto più tradizionale), “Altar Of Deceit” e “Black Snow” potrebbero rientrare nella descrizione. In realtà in “Melana Chasmata” c’è molto altro, una ricerca di nuovi suoni ben occultata dietro paraventi di classicità metallara. Per questo è ancora più interessante. Sono moltissimi gli esempi possibili: la distorsione iniziale di “Breathing” richiama subito alla mente i panorami grigio cupo dei Godflesh, e l’eco del gruppo inglese è presente pure nei gemiti della sei corde in “Demon Pact“, traccia che presenta un intro molto vicino all’industrial degli Einsturzende Neubauten; l’incredibile “Aurorae” presenta invece dei tocchi post – metal in molte delle sue lunghe parti strumentali, e se ci sentite rimandi a Isis o Agalloch non siete molto distanti dalla realtà. Il capolavoro supremo è però “In The Sleep Of Death“, spossante marcia doom dedicata a Emily Brontë in grado di dipingere scenari d’infinito nero, in cui Warrior rispolvera il lamento strozzato e morboso che aveva fatto grandi canzoni come “Mesmerized“.
Ci si potrebbe dilungare per pagine e pagine su quest’opera (curatissima anche graficamente: ancora una volta l’arwork è di H.R. Giger), ma basta una parola per racchiuderne le qualità: capolavoro. Se dev’essere l’oscurità, che sia quella dei Triptykon.
Uh!
[youtube -HnBYO8k5pM nolink]

Lascia un commento