Icarus The Owl – Rearm Circuits
Gli Icarus The Owl, paladini dello “swancore” (per chi non lo sapesse, una branca del post-hardcore influenzata da math/prog rock, che prende il nome dalla Blue Swan Records, etichetta creata, guarda un po’, da Will Swan dei Dance Gavin Dance), fanno un passo avanti verso il “pop”, portando a casa un ottimo risultato con questo quinto full-length. Non mancano numerose incursioni nel pop punk (“Double Sleep” o “Failed Transmissions”), fatto che rende “Rearm Circuits” ancora più interessante, anche se potrebbe far storcere il naso ai die-hard fan dello swancore. Ma ce ne possiamo fare una ragione.
Brutus – Burst
“Burst” è un disco pieno di vita, ancora più spiazzante (in senso positivo) perché è saltato fuori dal nulla, senza alcun preavviso. La forza motrice alla base dell’album è di sicuro il punk-hardcore, ma vanta di fondo strutture ben più complesse, dalle atmosfere shoegaze al blast beat, e tutto questo in pezzi per lo più brevi, che riescono in qualche modo ad essere a fuoco nonostante i limiti di tempo tipici del punk-hardcore. A proposito di batteria, è opera della vocalist Stefanie Mannaerts, che vanta una timbrica graffiante tipica della Courtney Love dei tempi d’oro. Da ascoltare, subito.
Intervals – The Way Forward
Ottimo progressive metal suonato da dio, a cui non manca proprio nulla. “The Way Forward”, ultima fatica della one man band fondata da Aaron Marshall, è come da tradizione uno strumentale incentrato sulla chitarra, formalmente perfetto, solare e ideale per calarsi nel mood giusto anche quando proprio non ce n’è. Unico neo: “The Way Forward” non si discosta di una virgola dal lavoro precedente, “The Shape of Colour”, il che è un peccato, anche se ammettiamolo, in questo caso veniale.
Boris – Dear
Di band prolifiche come i Boris ne esistono pochissime. E il bello è che, pur essendo arrivati quasi alla trentesima uscita discografica, il gruppo sperimentale riesce a buttar fuori un album estremamente intrigante. “Dear” è un’opera doom monolitica, addolcita da un cantato spesso (oltre) al limite del pop, nonostante rimanga sempre il sottofondo drone che la formazione del Sol Levante ha coltivato in (quasi) tutti gli anni di attività. Se proprio dobbiamo trovare un difetto, la produzione non è al top, ma non è detto che, conoscendo i nostri polli, non sia un effetto del tutto voluto.
Morbid Angel – Kingdoms Disdained
In seguito a diversi anni di pausa, a cui si sono accompagnati altrettanti cambi e scazzi in line-up e passi falsi, i Morbid Angel ritornano con un disco davvero inattaccabile, che farà la gioia dei fan della prima ora della formazione di Tampa. “Kingdoms Disdained” è un album death metal molto classico, da cui non possiamo aspettarci chissà quali voli pindarici ma qualche buona palata sui denti assolutamente sì (vedi “D. E. A. D” e “Garden of Disdain”, per citare un paio tra i pezzi più efficaci).
Godsticks – Faced With Rage
Un disco complesso e ricco di sfaccettature quello dei Godsticks, in cui luci e ombre si rincorrono per intrecciarsi finalmente in un blend davvero ben riuscito. Hard rock ma con un retrogusto più che prog, “Faced With Rage” è un album suonato bene e che suona ancora meglio, grazie all’ottima produzione. Inoltre, il vocalist Darren Charles sfodera un cantato clean da fare invidia a Myles Kennedy, pur senza raggiungere le sue vette inarrivabili. Ma non è detto che in futuro non ci faccia delle soprese, dato il potenziale.
Axis – Shift
Il 2017 è un anno fortunato (anche) per l’hardcore metalizzato, con il botto di band (leggi alla voce Code Orange) tra le quali possiamo benissimo ascrivere gli Axis. Come dice il titolo stesso, il “cambio” per i Nostri è tutt’altro che metaforico: in seguito all’abbandono del frontman Rafael Morales, da quintetto si sono trasformati in quartetto, senza perderci però in convinzione e credibilità. Infatti “Shift” è un lavoro intricato e interessante nella scelta di soluzioni che trascendono l’hardcore tout-court, andando a sfociare di tanto in tanto nel post-metal.
Spook The Horses – People Used To Live Here
Post-rock nella sua accezione più malinconica e cinematica, affacciato in bilico sull’indie. Ecco che cos’è “People Used To Live Here”. Un disco che, in parole povere, non può essere per tutti e non pretende neanche di esserlo. Spesso paragonati ai Mogwai, ma con una vena devastante di post-doom, i Spook The Horses fanno un uso estremamente parsimonioso dei vocals, presenti in pochi pezzi e non di certo come focus primario, ma come sorta di elemento ornamentale.
Fathoms – Counter Culture
Per una serie inenarrabile di sfighe, il secondo full-length dei Fathoms, registrato nel 2015, non ha potuto vedere la luce fino ad oggi. I Nostri però non si sono persi d’animo, e tra un live e l’altro, sono riusciti comunque a coltivare l’hype attorno a questa uscita. In effetti, “Counter Culture” è un buon disco metalcore con tendenze hardcore (vedi la conclusiva “You Ain’t On What We On”), con un’ottima energia e un altrettanto gradevole gusto per la melodia. Niente di nuovo, per carità, ma c’è di molto peggio in giro.
The Faceless – In Becoming a Ghost
Dopo cinque anni di silenzio, i The Faceless tornano con il loro quarto album, “In Becoming a Ghost”. Il lungo periodo di inattività e la miriade di cambi in line-up si fanno sentire pesantemente in una mancanza di feeling e coesione tra la band. L’assenza di un filo logico tra tech-death(core), prog, atmosfere barocche e goth alla Cradle Of Filth e il cantato alla Gahan (non scherzo, ascoltate “The Spiraling Void”) è il sintomo più evidente di quanto esposto prima (oltre al fatto che su dieci pezzi solo tre – escludendo strumentali e cover – sono davvero inediti). Di certo ai Nostri, a proposito di Depeche Mode, non manca il coraggio, e mi riferisco all’agghiacciante cover di “Shake the Disease”. Ma forse, a volte, è meglio lasciar perdere.