Non la vedo tanto benino Katy Perry. Se fossi femmina, proverei per lei imbarazzo come a vedere la tardona fuoricorso che pretende di fare ancora festa con le matricole. Se fossi maschio, avrei capito ormai che sarebbe meglio tagliarsi le balle piuttosto che avere intorno una come lei. Se fossi arcobaleno, farei pure caso a quello che scrive nei testi, sarei in grado di seguire i suoi dissing, sarei in grado di cogliere le sue citazioni alla dance anni ‘90 e il tutto mi lascerebbe parecchio incazzato.
La piccola Katy è presa più che mai dalla trance agonistica per rimanere nella vetta delle faighe che contano, ma a questo giro prende scoppole a destra e sinistra. Troppo follower, per niente leader, il suo progetto puzza di vecchio e di copia, il suo look è discutibile, le sue menate hanno stancato in fretta. L’avevamo lasciata a “Prysm” (2013), il disco-catalizzatore per superare la crisi del divorzio, e quattro anni dopo… beh la troviamo ancora in sbatta per qualcos’altro. Immagino che nella sua testa lei si veda come promotrice del girl power contemporaneo, della diversità, della pace nel mondo e tante belle cose… ma no. Nei suoi testi c’è sempre qualcosa di aspro, qualche menata, insomma, sta ancora a lagnarsi e lagnarsi e io non potrò mai credere a una Katy Perry che mi dice “I’m uptight/playing by the rules in this game of life/365 days on the grind”. Ma santo cielo, quando mai ti sei fatta 365 giorni sotto la macina. Forse non se ne accorge, ma dai suoi testi traspare una persona incredibilmente insicura, che nonostante il fisico, il successo e i milioni deve sempre fare la parte dell’incompresa, della vittima, della ragazza che in quanto femmina non viene presa seriamente, di quella che deve dimostrare sempre tutto. Ma per favore. Sicuro poi che se una venisse da me a cantarmi in faccia “Mi manchi più di quanto ti abbia amato” le regalerei un biglietto di sola andata per il treno diretto a sticazzopoli, ma senza battere ciglio proprio.
Musicalmente lei e gli altri 16 produttori (mi diverte sempre contarli) come scimmie ammaestrate hanno puntato sul pop dance che tanto va adesso, rendendo il tutto più ballabile possibile. Non c’è una goccia di ispirazione o di originalità in questa landa artefatta di beat scontati e autotune coatto, i filler abbondano e per qualche “scossa” bisogna aspettare gli ospiti (prevedibili) come Nicki Minaj e Skip Marley. Siamo arrivati a recuperare il piano della dancehouse anni ’90, e “Swish Swish” (dove, se vi interessa, continua la faida con Taylor Swift) suona così 1997 da avermi fatto spuntare ai piedi delle Buffalo. Ruba certe atmosfere da “Purpose” di Bieber (vedi l’apertura di “Witness”), ruba certe trovate di weird shit dalla Miley Cyrus più fumata (vedi la copertina e il video di “Bon Appetit”), ruba la zazzera bionda a entrambi. Poi boh totalmente a random, “Power” è la versione annacquata della “Power” di Kanye West. Lui campionava i King Crimson, lei ci mette una rullata a muzzo, ma l’idea è quella, dai.
Questi geometri della hit per teenager si fanno una capa tanta per cercare i singolazzi, un paio di ritornelli che rimangono fastidiosamente in testa ci sono, ma perché con la stregoneria mettono i messaggi subliminali nelle frequenze. Non c’è nulla che ci piacerebbe ricordare per davvero da questa uscita della Perry. Ormai ha 32 anni e si è incaponita su un target di audience molto giovane, però vuole anche essere hip (altrimenti non campioneresti WHAT-THE-FUCK), vuole essere impegnata paladina delle femmine indipendenti, vuole vestire vestiti pazzissimi come RiRi e Miley… ma per strada si è dimenticata di essere una cantante che dovrebbe tirare fuori la voce, tanto per incominciare.