Kendrick Lamar lo sapeva, aveva previsto tutto già dalla scelta del titolo. A due anni di distanza da “To Pimp a Butterfly” venerdì è stato pubblicato “DAMN.”, il quarto disco del rapper di Compton.
Dicevo, Kendrick lo sapeva. Sì perché K-Dot non ha fatto altro che predire la nostra reazione all’ascolto dell’album per poi usarla come titolo. Dannazione, appunto.
La scena rap americana aveva bisogno di un disco come “DAMN.”, ma soprattutto Kendrick Lamar aveva bisogno di un progetto del genere. Dopo i suoi tre precedenti dischi – nella conta non prendiamo in considerazione “Untitled Unmastered” – , in cui il filo conduttore tra i pezzi era ben marcato, il rapper statunitense ha cambiato rotta. Per certi versi ha deciso di ridimensionarsi prendendosi meno sul serio, ma senza perdere qualità, puntando su produttori diversi che gli hanno confezionato dei brani freschi e immediati; su tutti “HUMBLE”, una banger hit che da tempo mancava al suo repertorio, prodotta da Mike Will Made It.
Insomma Kendrick, non è caduto nella trappola che ha bloccato alcuni suoi colleghi, penso a Kanye West, immobilizzati da quella pressione nel dover dimostrare di essere dei geni a tutti i costi e stupire per forza.
Si è dimostrato come un artista libero, con un progetto e una visione, una vera anomalia in un mondo di meri esecutori e replicanti.
Ed è per questo motivo che “DAMN.” pur non avendo chissà quale messaggio al suo interno ha stupito. Il tappeto musicale delle quattordici tracce è massiccio, e nell’ora scarsa di ascolto oltre alla già citata “HUMBLE”, spiccano “LOYALTY” con Rihanna, “FEAR”, e “XXX” forte della collaborazione inaspettata con gli U2.
Il nuovo album di Kendrick Lamar è così piacevole che gli si perdona anche il caps lock utilizzato per il titolo. Probabilmente non sarà un classico come i precedenti, ma pompa tantissimo e per una volta facciamocelo bastare, dannazione.