Korn – The Serenity of Suffering

korn-the-serenity-of-sufferingI Korn arrivano al loro undicesimo album con ‘The Serenity of Suffering’, dopo oltre vent’anni di carriera tra alti e bassi che ne hanno attestato la loro posizione di band di riferimento per il genere nu metal.

Hanno iniziato nel lontano 1994, tentando di affiorare fuori da una tempesta del mercato musicale che voleva vendere solo flanella, maglioni scoloriti, jeans strappati. Loro si sono presentati con  tute da ginnastica, le treccine, le canottiere, suonando il metal  ma usandolo per comunicare i disagi di una generazione americana in crisi di identità, senza più contatti con quella dei loro genitori, in balia delle scelte dei potenti. Hanno contaminato e sperimentato, dando linee guida a un movimento che con il secolo arrivato al giro di boa dei 2000 sarebbe esploso facendo piovere dollari a montagne sul genere del crossover, o nu metal.
Era l’era del videoclip, e i Korn ci hanno regalato dei piccoli capolavori. Unendo i riff metal a cantato in growl e melodico, mischiato a collaborazioni rap, infarcito di strumenti come la cornamusa, i Korn creano il pastone che avrà centinaia di emuli e che farà la fortuna di innumerevoli gruppi. Capiscono che alla musica devono unire uno stile a tutto tondo, non solo espressivo, ma anche visivo. Ogni uscita di un video dei Korn è una festa per i fan, pieni di idee, visivamente potentissimi e divertenti.

Il trittico discografico dell’esordio ha creato la base per posizionarli tra i grandi sacerdoti del metal, riempendo le classifiche di pezzi diventati dei veri classici da rockteca. La fine del decennio ha visto i Korn perdersi tra cambi di formazione, defezioni, idee non felicissime quali quella di suonare un Mtv Unplugged, non proprio nelle loro corde, o collaborazioni con il genere che si riteneva fucina d’oro del futuro, la dance dubstep, che per grazia del dio della musica pare invece stia agonizzando.

Con ‘The Paradigm Shift’ però parevano essersi dati una riorganizzata, sia di produzione che di anima del gruppo. A parte il batterista sono tutti tornati al loro posto e se pur non si tratta di un disco memorabile, questo penultimo ha il pregio di averli svegliati da un torpore confusionale che li aveva distratti dalla loro essenza spingendoli a guardarsi intorno alla ricerca di altri stimoli, altri lidi da battere. Il ritorno di moda del genere nu metal ha aiutato di certo. Dopo il rigurgito anni ’80 e quello del grunge pare sia la volta del metal contaminato di inizio secolo, e band come Pod e Papa Roach stanno tentando di scrollarsi la polvere di dosso e tornare a dare voce ai disagi più profondi di una generazione che dopo quindici anni si trova affacciata al mondo del lavoro e non più in cameretta a guardare i poster dei loro beniamini con i capelli a punta ossigenati. Il lavoro più onorevole fatto dai Korn è stato quello di tornare ad avere una credibilità live. Le ultime esibizioni live dei ragazzi propongono uno show di qualità e divertente, e questo nuovo ‘The Serenity Of Suffering’ ha l’innegabile qualità di avere in sé undici brani (più due bonus) tutti onesti e suonabilissimi.

Il suono che propone dalle prime note pare essere una continuità del precedente disco, ma con una pesantezza di riff che strizza l’occhio ai loro esordi pre contaminazioni. Il riff della opener ‘Insane’ infatti è una mazzata da headbanging, che incornicia la fantastica voce di Jonathan Davis, che come poche riesce a comunicare sofferenza e potenza, passando da un pulito mellifluo al growl potente, all’urlo sfrenato che in questo pezzo asseconda la potenza aggiungendo quel tocco di sofferenza che compone il marchio di fabbrica dei Korn. ‘Rotting In Vain’ è stata la prima anticipazione dell’album, quella che ha subito fatto capirne il timbro, della fine delle sperimentazioni e dell’intento di soddisfare i fan dei Korn con quintalate di Korn, riff dei Korn, urla dei Korn, malesseri dei Korn. ‘Black Is The Soul’ e ‘Take Me’ offrono un connubio irresistibile di melodia e metal, che ricorda la prolifica alchimia creata nel bellissimo ‘Issues’.

‘A Different World’ vede la collaborazione di Corey Taylor di Slipknot e Stone Sour, una collaborazione abbastanza asettica ma è sempre un piacere ascoltare il timbro del clown e la sua presenza nei credit dà sempre visibilità. Il marketing nel genere del crossover è sempre stato un musicista aggiuntivo e nessuno ha mai negato che fosse una macchina stampa soldi. ‘Die Yet Another Day’ è un gran pezzo, che probabilmente si attesta ad un livello leggermente superiore rispetto al resto del disco, con i versi accompagnati da un giro di chitarra e basso di rimandi tooliani, e un ritornello melodico ma potente e sporco. L’album non ha né cali né picchi, e come spesso accade, non c’è nessuno scarto qualitativo con le b-side ‘Babe’ e ‘Calling Me Too Soon’, che sono un semplice taglio dovuto a esigenze dimensionali.

‘The Serenity Of Suffering’ oltre ad essere in quattro parole la possibile definizione per profani dell’esperienza musicale dei Korn, è un buon bacino di raccolta per estrarre materiale per il prossimo tour dal vivo. Un disco privo di riempitivi, perché è esso stesso un grosso riempitivo all’interno della discografia del gruppo, ma che è ben suonato e a differenza degli ultimi episodi, non dispersivo. Diverte e lascia sfogare, come sempre, le nostre rabbie e delusioni quotidiane.
I Korn hanno capito in quale parte del cuore dei loro fan devono stare e una volta fatto questo, posso picchiare più duro che possono.

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