Kylesa – Exhausting Fire

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Si farebbe un gran torto ai Kylesa nel derubricare il loro “Exhausting Fire” a semplice disco piacione, concepito soltanto per conquistare nuovo pubblico. Ovviamente la tentazione di gridare al “sono diventati più melodici per vendere di più!” è latente in molti fan della prima ora; per lo meno, in quelli che conservano una mentalità ormai superata dai fatti, ché nel 2015 una band di nicchia qual è quella georgiana non ha certo nella vendita di cd la prima fonte di guadagno (spesso neppure la seconda…). C’è poi d’aggiungere che lo sludge metal impelagato fra le tentazioni prog dei Mastodon e i liquami psichedelici dei Neurosis è stata sì una costante nella carriera del trio, ma una costante variabile, che inesorabilmente convergeva verso una rarefazione del suono. Il precedente “Ultraviolet” (2013) lasciava presagire un nuovo respiro rock, che in questo settimo album è persino più evidente.

Eppure, si diceva, una maggiore ricerca della melodia non significa necessariamente un decadimento nella qualità artistica. “Exhausting Fire” è, in questo senso, un ottimo esempio di uso virtuoso del ritornello orecchiabile. Laura Pleasants e Philip Cope, i due che si alternano dietro al microfono, non possiedono delle voci in grado di fare la differenza, ma il continuo oscillare fra timbro femminile e maschile offre un soffice cuscino sul quale addormentarsi e fare sogni molto, molto agitati. Perché i riff pesanti e le dissonanze non sono sparite, tutt’altro: l’entrata bulldozer di “Crusher” è doom/sludge da manuale, e certe asprezze presenti in “Lost and Confused” si avvicinano agli esordi dei Kylesa. Poi c’è tutto il resto, e non è poco.

Un LP particolare anche nella disposizione della scaletta. Le tracce migliori vengono fuori poco a poco, e la soglia di coinvolgimento si alza parecchio quando si arriva a “Shaping the Southern Sky”, lanciata da un riff alla Black Sabbath che però muta in qualcosa di simile ai Lynyrd Skynyrd a spasso coi Grateful Dead (cfr. l’ipnosi percussiva del break centrale). Si passa poi da “Falling”, una sorta di versione psych dei King Crimson più eterei, per giungere alle eccezionali “Growing Roots”, forte di un chorus impeccabile nascosto fra clangori post – hardcore, e “Out of My Mind”, mini suite acid/prog chiusa da un impetuoso finale in crescendo.

Peccato per la cover di “Paranoid”, snaturata da un tempo eccessivamente lento e da rumorismi alla Hawkwind del tutto fuori luogo. Questo però non toglie tutto il buono contenuto nel disco, forse il più maturo dei Kylesa e sicuramente fra i più interessanti dell’anno.

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