Scordatevi la Lana Del Rey di “Born To Die”. Se parlando del suo ultimo “Honeymoon”, uscito il 18 settembre 2015, l’artista ha fatto riferimento ad un ritorno al proprio passato, trattasi delle atmosfere fumose, 60s e vagamente noir dell’EP d’esordio “Kill Kill”, pubblicato nel 2008 col nome di Lizzy Grant, e del suo pezzo trainante, “Yayo”, incluso poi nell’album “Lana del Ray A.K.A. Lizzy Grant” e nell’EP del 2012, “Paradise”, più che all’album d’esordio, da cui si allontana decisamente. E proprio alla luce del tono rétro delle sue prime produzioni, ma soprattutto del presente lavoro, si spiega e assume un senso tutto nuovo la collaborazione di Lana Del Rey col campione del sound anni ’60, Dan Auerbach, coproduttore del suo secondo lavoro, “Ultraviolence”.
Di quel disco, spiazzante per chi si attendesse un secondo “Born to Die”, e delle sue atmosfere, unite ad un certo gusto per la melodia e all’utilizzo dell’elettronica, è figlio “Honeymoon”. Certo, mancano Dan Auerbach e le sue chitarre in quest’album, che sposa con intelligenza le due anime dei suoi predecessori: i suoni organici di “Ultraviolence” e quelli elettronici di “Born to Die” – del quale saggiamente tralascia la vena hip-hop e le derive tamarre -, unificati sotto l’egida di un mood etereo, infingardo ed elegantemente decadente. Due facce della stessa medaglia, rappresentate alla perfezione dai singoli, “Terrence Loves You” e “High By the Beach”, anticipazioni di un album coprodotto da Lana con i collaboratori di vecchia data Rick Nowels e Kieron Menzies e che non rinuncia all’impiego di una discreta varietà di suoni, riuscendo ad inquadrarli entro un linguaggio dall’anima fumosa, ma dai contorni piuttosto netti.
L’apertura con una title track, fortemente atmosferica ed allusiva di certi anni ’60, white soul e sinfonismo alla Morricone, mellotron e organetti, dichiara solo in parte gli intenti di un lavoro che, non a caso, andrà a chiudersi con una cover di “Don’t Let Me Be Misunderstood” di Nina Simone, della quale riprende il tono squisitamente rarefatto. Già dai primi tre pezzi si intuisce come ci si trovi di fronte ad un album nel complesso elegante, ma che si gioca per lo più sui particolari. In “Music to Watch Boys To” sono le percussioni, che insistono belle rotonde sotto il penetrante tappetone di legni e synth, primo inserto elettronico e prima suggestione dream pop dell’album, suggestione che si concretizza in “Terrence Loves You”. Pare quasi di sentire i Goldfrapp di “Tales Of Us” in questa morbida ballata caratterizzata da un arrangiamento che sa essere sontuoso ed essenziale allo stesso tempo: piano, archi, voce soffiata e poi la chicca, quella svisa di sax che dona un delizioso tocco jazzy al brano. L’influenza di tanta musica degli anni ’60, poi, trapela in maniera evidente in un pezzo come “God Knows I Tried”, che ricorda abbastanza da vicino il sound di “Bang Bang”, nella versione di Nancy Sinatra, e l’invenzione melodica di “Nights In White Satin” dei The Moody Blues.
Si diceva di “High By The Beach” e della sua natura electro, in contrapposizione ad un brano ben più organico come “Terrence Loves You” ed è proprio la prima a traghettare l’ascoltatore oltre le brumose apparenze di un disco che sembrava esaurire la propria ispirazione nei 60s e ad aprire la sezione più propriamente elettronica dell’album, che prosegue con “Freak” e “Art Deco”. L’atmosfera rimane fortemente evocativa e anche gli arrangiamenti continuano a sfruttare il calore di fiati, archi, strumenti a tastiera acustici, elettrici o semielettronici, ma le ritmiche virano verso un’elettronica soft di matrice dubstep. “Burnt Norton (Interlude)” con le sue suggestioni cinematografiche, poi, apre la strada a “Religion”, l’unico pezzo dell’album che potrebbe provenire dall’era “Born to Die”/“Paradise” e che chiude la parentesi più dichiaratamente elettronica del disco.
“Salvatore”, smielata ballatona, proietta l’ascoltatore in un mood cinematografico Felliniano («Marcello, come here!» e Lana, la diva, si immerge sorniona nella fontana di Trevi), immediatamente sconfessato dalla ritmica elettronica e dall’aura dark di “The Blackest Day”, tra i pezzi di maggior impatto dell’album. Un’alternanza che si ripete con il sound decisamente 60s di “24”, seguito a ruota dal synth di “Swan Song”, il canto del cigno prima della chiusura con la cover di “Don’t Let Me Be Misunderstood”.
In effetti, col suo doppio dito medio alle facili lusinghe del pop di “Born to Die”, Lana Del Rey il rischio di essere fraintesa lo ha corso, eccome! A fare di “Honeymoon” un album più che discreto, tuttavia, è la sua natura di sintesi, tutt’altro che perfetta (e qui sta il bello), di quanto di più interessante realizzato fin qui dalla cantautrice newyorkese, che con questo progetto pare avere trovato (o forse ritrovato) se stessa.