The Heavy Countdown #67: Landmvrks, The Ocean, Bloodbath, Sick Of It All

Landmvrks – Fantasy
Avevamo lasciato i Landmvrks un paio di anni fa con il piacevolissimo “Hollow”. E dopo questo relativamente breve lasso di tempo, la giovanissima band torna perfezionando il proprio stile e affilando a dovere le armi. “Fantasy” è un buon disco di metalcore attuale, di quelli che spesso sconfinano in sonorità più “pop” ed elettroniche, senza per questo perderci in credibilità (e la voce super versatile del frontman Florent Salfati aiuta parecchio in questo). Unica nota dolente “Alive”, la ballad strappamutande che non ti aspetti.

The Ocean – Phanerozoic I: Palaeozoic
Di band (soprattutto progressive metal) che fanno concept album ce ne sono sempre più. Ma un concept, anche se solido in sé, non è nulla senza il supporto di un altrettanto consistente lavoro sui singoli pezzi. Come già successo per i Between the Buried and Me, anche gli Ocean hanno scisso la loro narrazione in due parti (la seconda vedrà la luce nel 2020), concentrandosi come sempre su temi come le ere geologiche, l’estinzione, e il costante ripetersi degli eventi. “Phanerozoic I: Palaeozoic” è un’opera ambiziosa senza essere pretenziosa, un oceano di onde melodiche, dietro cui si nascondono mostri marini di inaudita violenza.

Haken – Vector
Gli Haken vincono tutto sfornando l’opera più pesante (e anche più breve) della loro carriera e uno dei dischi prog metal più interessanti degli ultimi dodici mesi, fondato su un concept ambizioso e molto attuale (il rapporto tra un paziente di una clinica psichiatrica e il suo medico). Ad appena due anni dall’acclamatissimo “Affinity”, la band britannica (che ha all’attivo compreso “Vector” cinque album) ha quindi ancora molto da dire, proseguendo idealmente il discorso del lavoro precedente, ma riuscendo al tempo stesso a superarsi.

Napoleon – Epiphany
Ci aveva colpito molto “Newborn Mind”, debutto del 2016 dei britannici Napoleon. E anche “Epiphany”, il nuovo lavoro del trio uscito da pochissimo, è destinato a lasciare il segno. I Nostri infatti iniziano ad essere conosciuti e stimati anche al di fuori dei confini della terra di Albione grazie a un progcore bello tecnico (senza mai essere forzato) ma con le aperture e i ganci giusti, caratteristica che ormai sta diventando l’impronta distintiva di Sam Osborns e soci, e che permette loro di essere qualcosa di più di un semplice incrocio tra Intervals e Architects.

The Browning – Geist
“Geist” è un disco divertente, e su questo c’è poco da discutere. Ed è pure molto zarro. I Browning tirano fuori dal cilindro un electro-metal convincente anche se (ovvio) già sentito, grazie a una produzione pressoché impeccabile e ai synth che non sono solo semplici riempitivi, ma parte integrante della narrazione, che diventa sempre più aggressiva man mano che si procede nell’ascolto. Per il resto si viaggia su un death-metalcore standard anche se ben costruito.

Bloodbath – The Arrow of Satan is Drawn
I Bloodbath hanno bisogno davvero di poche presentazioni. Il supergruppo formato da membri di Paradise Lost, Katatonia, Opeth e Craft torna alla ribalta con “The Arrow of Satan is Drawn”, album che segna inoltre la seconda prova di Nick Holmes al microfono del combo (anche se sono in molti a rimpiangere il contributo di Mikael Åkerfeldt). Il nuovo lavoro dei Nostri però, è un disco di alti (“Chainsaw Lullaby”) e bassi (“Deader”), un buon esempio di death-black ‘n’roll da combattimento, che nel 2018 non basta per rimanere impresso a lungo.

Hate Eternal – Upon Desolate Sands
Death metal duro e puro, di una brutalità senza compromessi, diretto come un pugno nello stomaco. “Upon Desolate Sands” non fa prigionieri, e complice anche l’apporto del nuovo batterista Hannes Grossmann (ex Necrophagist, ex Obscura), il settimo full-length degli Hate Eternal riesce molto bene nel suo intento, ovvero tenere alta la soglia dell’attenzione fino alla fine. E sorpresa: la conclusiva “For Whom We Have Lost” non è solo il brano più melodico del lotto, ma anche uno dei più melodici dell’intera carriera dei Nostri.

Silent Planet – When The End Began
Il terzo album dei Silent Planet (il primo con UNFD) è un lavoro in cui, anche senza conoscere i testi, si capisce al volo che la disperazione più cupa è protagonista. Metalcore violento e arrabbiato, con l’accento spesso più sul –core che il resto. E in effetti, se ci si addentra nelle lyrics, che trattano dipendenze, malattie mentali e l’effetto del consumismo, non potrebbe essere altrimenti. Manco a dirlo, i vocals di Garrett Russell sono perciò il fulcro di “When The End Began”, spesso a discapito della musica, che passa (comprensibilmente) in secondo piano.

Sick Of It All – Wake the Sleeping Dragon!
Leggevo da qualche parte che l’hardcore punk sta vivendo un nuovo momento d’oro perché intorno a noi ci sono sempre più motivi per cui incazzarsi. E chi dice che l’anzianità porta consiglio si sbaglia di grosso. Infatti i “vecchi” Sick Of It All non si sono di certo placati con l’età che avanza, anzi. “Wake the Sleeping Dragon!”, il dodicesimo full-length della storica formazione, è composto da pezzi brevi, frenetici, violenti e velenosi come sempre. Niente di nuovo, ma in alcuni casi, va anche bene così.

Devour The Day – Signals
Nati dalle ceneri degli Egypt Central, i Devour the Day arrivano oggi al terzo full-length della loro carriera. Una cosa è certa: “Signals” è un album di discreto alt-rock, a tratti intenso e viscerale (a volte anche troppo, vedi la conclusione di “One Shot”), con un approccio volutamente lo-fi. Non mancano rimandi illustri, e cito giusto gli Smashing Pumpinks che ispirano la conclusiva “Under the Overpass”, ma i Devour the Day, pur mantenendo intatta la propria identità, si ripetono troppe volte nel corso del disco. E per questo li rimandiamo a settembre.