Linkin Park – One More Light

Linkin Park andate a casa, siete ubriachi. “One More Light” esce oggi come una specie di scherzo di cattivo gusto.

Ok, i singoli e le dichiarazioni del gruppo ci avevano preparato a questo cambio di tendenza nemmeno troppo repentino. Ma ascoltandolo tutto si realizza che cavolo, lo hanno fatto davvero. È uscito un album elettro pop dei Linkin Park.

Come giudicarlo quindi? Che imbarazzo.

Credo che il modo migliore di recensirlo con una frase sia questo: se lo ascoltate su Spotify non riuscirete a distinguerlo dalla pubblicità.

È dal 2010, con l’uscita di “A Thousand Suns” che i Linkin hanno introdotto suoni moderni, elettronici. Questo non sempre e non obbligatoriamente dovrebbe determinare un alleggerimento dei toni ma in questo caso, come in quasi tutti gli altri, si. Il Rock e il metal sono chitarre distorte e urla, picchiare la batteria e le corde del basso con l’intento dichiarato di spaccare le orecchie. Se questo lo sostituisci con basi elettroniche e melodie reggi cocktail, smetti semplicemente di fare rock.

Meteorae in parteMinutes To Midnight” erano album che si allontanavano già dallo strepitoso esordio nu metal di “Hybrid Theory”, ma pur scostandosi dalla rabbiosa spontaneità di quel disco che comunque strizzava l’occhio alle classifiche (“In The End” credo abbia avuto passaggi in numero paragonabile a quelli di una qualsiasi Katy Perry) rimanevano due bei album di rock sperimentale.

Poi la scelta oculata di cambiare totalmente rotta. Il settimo album è pop, quel pop che senti nelle playlist del Papeete o un qualsiasi contenitore estivo di nulla. Tutti gli elementi che hanno reso grande il gruppo e hanno creato una generazione di fan sono stati venduti per non si sa quale intento. Perché parliamoci chiaro, se sei un calciatore e decidi di cambiare totalmente e andare a fare, diciamo curling, devi confrontarti col fatto che comunque ci saranno giocatori di curling molto più bravi di te.

In ogni caso, questi Linkin Park travestiti da Halloween cominciano questo nuovo capitolo chill out con “Nobody Can Save Me” e se parliamo della carriera del gruppo, c’è solo da confermare. Il pezzo è sul serio chill out, una base registrata sopra uno spot di Spotify. La melodia è carina. Ma il batterista Rob Bourdon che fine ha fatto? È in comunità? Tutto il mio imbarazzo nell’ascoltare questo disco deve essere nulla in confronto al suo nel suonarlo. Cioè nel non suonarlo.

Non ci sono punte in queste dieci canzoni pop, si attestano tutte sullo stesso livello di intrattenimento passivo, davvero una playlist da aperitivo, dove i discorsi banali e di convenienza riescono ad essere più significativi di queste note, che rimangono in sottofondo. Ecco, una colonna sonora alla banalità. Così “Good Goodbye” ha una parte rappata che nessun estimatore del genere accetterà, e la solita melodia insipida.

A questo punto c’è una svolta inaspettata. Ah no scusate, è la pubblicità dell’Esselunga. Torna Papeete e la voglia di estate, non sono ancora tornati i Linkin, credo. Ah sì, ok eccoli. “Battle Symphony” ha una melodia obbiettivamente accattivante, come il singolo “Heavy”, due pezzi che hanno uno spessore e un senso di esistere se non fossero dei Linkin Park. Ma come il resto, nessuno bloccherà il suo discorso banale sul tempo o sul lavoro che odia per chiedersi ehi, chi sono questi?

Invisible” parte con un mood di synth più cupo, per poi scadere quasi immediatamente nell’offensivo con Mike Shinoda che gioca anche lui a fare il Justin Bieber. Una volta faceva le parti di rap. Sei confuso?
Poco da menzionare, se non la finale “Sharp Edges” che perlomeno è scarna e intima, con una chitarra acustica che accompagna un cantato di Chester Bennington vagamente country in un miscuglio tra pop e folk non del tutto drammatico.

Quel che è drammatico è la assoluta mancanza di rispetto da parte dei Linkin Park nei confronti del suo pubblico. La fetta di ascoltatori nuovi che vogliono conquistare credo che possano trovare francamente di meglio, mentre i fan di vecchia data riascolteranno i loro primi dischi ma con la consapevolezza che era tutta una posa.