Ascoltando i singoli anticipatori speravamo che questo giorno non arrivasse mai ed invece eccolo qui, il nuovo album dei Machine Head, “Catharsis”. Sul web abbiamo visto comparire più volte la facciona barbuta e capelluta di Robb Flynn che si prodigava a difendere a spada tratta i singoli del nuovo album senza lesinare scontri a viso aperto con i suoi fan di lungo corso. È sempre spiacevole vedere un’acredine così accentuata tra una scelta artistica e stilistica e i fan di un gruppo. Perché nel tuo dna c’è anche l’apprezzamento o meno dello zoccolo duro dei tuoi ammiratori, perché questo è quello che ti tiene ancorato ad una sorta di consapevolezza di sé, di entità di gruppo, di coerenza stilistica in un mercato che oggi giorno premia l’immediatezza fuggevole, che sfuma il tempo di un singolo ascolto. Dal lato opposto è anche sbagliato fossilizzarsi su un trend facile che ti garantisce un livello sicuro di responso, con il rischio di stufare con l’ennesimo disco fotocopia che alla lunga lascia il retrogusto muffoso dell’ultimo posto dello scaffale più in alto della cameretta dove inevitabilmente l’album andrà a vivere la sua esistenza.
Qual è quindi la formula per ovviare a questa tensione di opposti che rischiano di dilaniare in due pezzi le energie di una band? Semplice e ardua allo stesso tempo la risposta: fare un bell’album. Indipendentemente dalle tue scelte artistiche, fare un bel disco mette quasi sempre tutti d’accordo o lo farà se non subito a tempo debito. Cosa che i Machine Head non sono riusciti a fare.
Quel che è noto ancor prima di ascoltare le anticipazioni è che dalle dichiarazioni di Flynn questo album sarebbe stato vicino alle atmosfere più melodiche di “The Burning Red”, lavoro che a fine secolo scorso li aveva visti cavalcare l’onda del nu metal contaminando il loro usuale thrash in maniera a mio avviso tutt’altro che deludente, che funziona ascoltato ancora oggi. In più i detrattori della band conoscono bene alcune velleità di Flynn ad eccedere nei refrain melodici che suonano all’interno delle strutture granitiche dei pezzi come delle colate di miele fuso, caldo ma inacidito e vagamente sgradevole. Un fragilissimo equilibrio tra queste due parti contrastanti ha permesso al precedente “Bloodstone & Diamonds” di funzionare come a “The Blackening”, che ha accolto bene questa espansione di ego del cantante chitarrista. Insomma, “Burn My Eyes” e “The More Things Change” sono già stati fatti e uno dei motivi per cui i Machine Head sono ancora qui a fare la loro parte è proprio questa versatilità di Flynn. Ma in “Catharsis” questo mix è andato alla malora.
Inizia bene, pesante e violento come i migliori momenti della formazione. Flynn è furioso, veloce, animalesco come lo conosciamo. “Volatile” e la title track lanciano l’album a mille all’ora e convincono. Prendiamo “Beyond The Pale”, un riff di tutto rispetto deturpato da un impianto vocale melodico irrispettoso, pomposo, che può soddisfare solo chi è innamorato della propria voce e a pochi altri. Non di meno fino a qui “Catharsis” si regge ancora a livelli non deturpanti della discografia della band. Incespicare che diventa ruzzolone già in “California Bleeding”, heavy ma noiosa senza spunti interessanti, piatta e incolore. Colto da deja vu’ (peraltro come detto, annunciato) il frontman torna a rappare come ai tempi del nu metal e ormai cominciamo ad incrociare le braccia per vedere dove il ragazzo vuole arrivare senza nutrire più tante aspettative sul risultato finale. Peccato perché i riff e la produzione lasciano la sensazione di avere un disco potente e variegato ma l’ego spropositato di Flynn lo ha trasformato in una sua battaglia personale contro gli haters. Sembra quasi lo faccia apposta per irritarli.
“Kaleidoscope” è un’altra delle corpose anticipazioni dell’album prima dell’uscita, singoli che hanno contribuito ad intossicare la release del lavoro, soffocata da mille polemiche nate da una stroncatura quasi unanime del materiale. Perché anche qui il drumming è spietato, la produzione eccellente, ma il cantato è spesso come un tomo di filosofia sorpassata e futile. Lo schiaffo in faccia ai propri fan arriva e Flynn ha pure avuto la sfacciataggine di pubblicarla prima dell’uscita dell’album. Già tutti hanno ascoltato “Bastards”, una ballata che se proprio vogliamo analizzare suona come un accorato appello emotivo ed emozionato che francamente imbarazza. Al ripetersi del “NO!” urlato si trattiene a stento una risata. Che disastro.
Da qui in poi, pare che consci del danno non siano più riusciti a riprendere le redini della corsa e il deragliamento è inevitabile. È faticoso arrivare alla fine, tra le atmosfere cupe anni ’90 di “Screaming At The Sun”, l’insipida ballata acustica “Behind The Mask” e avanti così in uno sproloquio edonistico che si dilunga ben oltre il dovuto. Da qui in avanti l’album è potente e granitico ma si porta dietro gli stessi problemi rendendo arduo godersi anche i buoni spunti che qua e là affiorano come fiori nel deserto. A questo proposito “Grind You Down” fa il suo sporcaccio lavoro, sempre se anche qui si sopporta qualche velleità inutile di Flynn. Incomprensibile la chiusura di “Euology”, forse un qualche rito voodoo per ritrovare l’ispirazione di un tempo.
Troppo lungo e inficiato da un’esplosione definitiva dell’ego di Robb Flynn che fa sbarellare tutti gli equilibri che un tempo facevano funzionare gli album dei Machine Head già con una fragilità sottostante. Gli elementi ci sono, da riff potenti a un impianto ritmico devastante, ma se l’amalgama del cemento è rovinata dall’eccesso di acqua e i mattoni non stanno insieme, la casa crolla.