Se c’è una band che nella sua storia ha saputo superare le varie avversità, in alcuni casi uscendone addirittura più forte, questi sono gli AC/DC. Dopo oltre 40 anni di leggendaria e travagliata carriera, il gruppo più elettrico di tutti i tempi si trova a fare i conti con l’abbandono, per motivi di salute, di una colonna portante come il chitarrista ritmico Malcolm Young (sostituito dal nipote Stevie), con il fratello Angus che rimane l’unico componente fondatore ancora presente in formazione.
Oltre a questa perdita, la band di Sydney deve anche fare i conti con i guai giudiziari del batterista Phil Rudd, che ne mettono in dubbio il futuro nel gruppo. Di fronte a questi avvenimenti, gli AC/DC mostrano i muscoli, come hanno sempre fatto, e iniziano un nuovo percorso che ha come fulcro un nuovo album. Prende così vita “Rock Or Bust”, quindicesimo lavoro in studio, che succede a “Black Ice” del 2008.
Con 35 minuti scarsi di durata, si tratta dell’album più breve della discografia, e basta un solo ascolto per capire che è soltanto un bene: le canzoni sono undici proiettili sparati in successione, non ci sono superflue parti strumentali o noiose ripetizioni, gli assoli ci sono e durano esattamente il tempo che dovrebbero durare; in sostanza, è un album essenziale, diretto, e che strizza più volte l’occhio ai fan di vecchia data.
La title-track “Rock or Bust” è un brano che non potrebbe essere più vicino al prototipo di canzone AC/DC: un riff che si incolla immediatamente nel cervello, sezione ritmica potente, linea melodica chiara, e i versi del ritornello “In rock we trust, it’s rock or bust”, destinati a entrare nella lunga lista di frasi simbolo del gruppo; “Play Ball”, scelta come primo singolo, si sviluppa su un ritmo più veloce, ma per il resto non differisce nei canoni dal brano precedente: sono due canzoni scritte per essere gridate dal pubblico durante i concerti. “Rock the Blues Away” è forse il brano migliore dell’album, una convincente progressione tra strofa, bridge e ritornello che non ha punti deboli: non mi stupirei se fosse scelta come terzo singolo. L’album vive momenti più spensierati come la ballabile “Miss Adventure”, ad altri più intensi come la marcia hard rock “Dogs of War”; in “Rock the House” si sentono più forti le radici “blues” del gruppo, mentre “Baptism by Fire”, la canzone più veloce, ne fa emergere il lato rock and roll.
Dal punto di vista degli arrangiamenti ogni cosa è al suo posto, e non fa eccezione la sempre brutale voce di Brian Johnson, che resiste al passare del tempo.
Chiaramente nessuno si aspettava un album dall’impatto di “Back in Black” (ammesso che oggi o domani qualcuno possa riuscire a fare davvero qualcosa di simile), né il carattere viscerale dei dischi del periodo di Bon Scott, tanto meno qualcosa di sperimentale o innovativo. Quindi, nei limiti del possibile e forse anche un po’ oltre, “Rock or Bust” rispecchia perfettamente quello di cui aveva bisogno il vastissimo pubblico degli AC/DC, ovvero un album sincero, potente, relativamente semplice da assimilare, e che non si allontanasse da ciò che è stata la band per tutta la carriera.
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