Aerosmith Music From Another Dimension!

Aerosmith music from another dimension

Sì lo ammetto, mi sento un cretino. Mi sento un cretino per averci creduto. In fondo sono dei titani del rock. In fondo sono più di dieci anni che non pubblicavano un disco di materiale inedito. Quindi perché non crederci? La speranzina-ina-ina di venire rivoltato ancora una volta come un calzino dai Toxic Twins? Battere il piede a tempo, schioccare le dita? Cantare sotto la doccia allargando la bocca come Steven Tyler? Un’altra ballatona da leggenda? No eh? Cara grazia che sono ancora vivi e sono riusciti a farne un altro.

Music From Another Dimension!” parte e suona come avrebbe dovuto suonare “Just Push Play” (2001 – forse il peggiore della loro carriera) per essere un minimo decente. Ancora quella maledetta produzione piatta, fintissima, compressa e con tutto a palla…ma almeno con una certa grinta e un lavoro di chitarre degno di Joe Perry. L’opener “Luv XXX” picchia e schitarra come non facevano da tempo, pare di essere tornati al sound yuppie rock leccato di “Permanent Vacation” (1987) , anche se Tyler sembra aver perso qualcosa (e la produzione non aiuta). Ecco che arrivano i fiati e i riff alla Rolling Stones in “Oh Yeah” e si sta sempre meglio, ci si crede. Insomma, per le prime cinque canzoni tutto va bene: con il rap di “Beautiful” finalmente Tyler sputa fuoco fino al ritornello melodico (un altro esempio di Just Push Play-style), c’è la ballad obbligatoria ma innocua e poi la grandissima e groovosa “Out Go The Lights” che riporta alla fine degli anni ’80. Per qualche motivo il ritornello di “Out Go The Lights” viene ripreso dall’intro del singolo “Legendary Child” che, pur non entrando nella storia, ha una bella costruzione, ha i riff, ha i cori…si fa sentire. E questo però è fondamentalmente il problema del disco: l’accontentarsi. Te lo ascolti ma non rimane davvero in testa.

Ci sono dei pezzi validi, assolutamente, ma non ci sono i singolazzi degli Aerosmith che ti insegnano a scuola. E se gli Aerosmith non hanno i singolazzi, le stelle in cielo iniziano a spegnersi. Sì ok, hanno provato col ballatone “What Could Have Been Love”: è fatto con tutti i crismi, pianoforte, america 100%, sembra di stare nella pubblicità dell’amaro, ma a paragonarlo col passato gli tremano le gambine. Altro problema terribile è che dopo i primi cinque pezzi ce ne sono altri 10, che cadono in una spirale di noia abbastanza sconfortante. Ci provano con il country che tira sempre negli States, ci riprovano con un’altra ballatona scritta da Diane Warren (quella di “I Don’t Want To Miss A Thing”), ci ri-ri-provano riesumando addirittura l’hitmaker Desmond Child per la conclusiva “Another Last Goodbye” (dove finalmente almeno la voce di Tyler svetta come si deve). Formalmente tutta roba di qualità ma…non li fanno più come una volta. Provano a piazzare un paio di sassi per svegliarci, come “Street Jesus” (grazie a Brad Whitford) e “Lover Alot” ma ci sono pure filler da b-side diretta.

Insomma, non è un disco da buttare, ma dopo più di 10 anni dagli Aerosmith uno vuole ancora strapparsi i vestiti e rotolare nel fuoco, non accontentarsi! Si ascolta e riascolta ma non sale. Troppo studiato a tavolino, troppo artefatto, creato da una band con evidentemente troppe distrazioni. Un vero peccato che in questi ultimi anni tra American Idol, infortuni, rehab, litigate e progetti paralleli la musica non sia rimasta la loro unica religione come in passato. E questo è il prezzo.

Marco Brambilla

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