Il terzo disco di Alela Diane ci presenta subito la folksinger in una dimensione diversa. Sin dall’apripista “To Begin”: ora è accompagnata da una vera band, i Wild Divine appunto, in cui le due chitarre sono affidate al padre e al marito di Alela, rispettivamente Tom Menig e Tom Bevitori; completano l’organico il batterista Jason Merculief e il bassista Jonas Haskins. Così cambia anche il sound delle sue canzoni, ora più corposo e un pizzico meno misterioso, e persino il suo modo di cantare, che si fa più classico e asciutto, meno propenso ai gorgheggi di stampo virtuosistico.
Eppure la continuità con il predecessore “To Be Still” (2009) è evidente, tanto che il nuovo album potrebbe anche esser visto come la sua inevitabile continuazione. Da sempre la Diane si è presentata quale vestale della tradizione musicale americana, e anche se nella vecchia produzione non mancavano affatto agganci con l’alt folk e lo psych folk (basti pensare ad alcune similitudini fra lei e cantanti come Joanna Newsom e Laura Gibson), era chiaro che la sua ricerca voleva porsi come un’esplorazione a tutto campo del passato, con una predilezione per gli anni Sessanta. Ora, con una più vasta tavolozza timbrica a disposizione, le è possibile realizzare più compiutamente quanto stava covando in nuce.
Lo provano episodi vibranti come il country folk elettrico di “Long Way Down”, quasi Dylaniano nel suo incedere, il blues parimenti elettrico di “White Horse”, la solida ballata “Of Many Colors” e la lievemente psichedelica “Heartless Highway”, quest’ultimo il momento più smaccatamente Seventies di tutto il disco, complici anche i riverberi di hammond che lo guarniscono. Non sono comunque sparite le composizioni più austere e brumose, quelle in cui la voce della cantautrice si lascia accompagnare da una chitarra acustica e poco altro. Anzi, una di esse risalta per fuoco interpretativo e intensità fuori dal comune: “Elijah”, in cui la voce di Alela somiglia molto a quella di Joan Baez, pur rimanendo ugualmente personale. L’apice dell’opera è “Suzanne”, che la musicista dedica alla madre, e che riesce nell’intento di sintetizzare le due anime dell’artista, quella più nostalgica e malinconica e l’altra, la più ‘estroversa’, grazie a un crescendo di forte presa emotiva.
Insomma, un bell’album davvero “Alela Diane & The Wild Divine”. Che potrebbe permettere all’autrice di guadagnarsi un seguito più ampio rispetto a quello che ha potuto vantare fino ad ora. Ovviamente la maggior fama non è sinonimo di maggior qualità, tutt’altro. Ma in questo caso sarebbe raggiunta senza inficiare la qualità artistica.
Stefano Masnaghetti