Pur recuperando sonorità e stili con già parecchi anni alle spalle (d’altra parte, chi non l’ha fatto negli anni Zero?), i Black Rebel Motorcycle Club nel corso di 15 anni di carriera e 7 album, compreso quest’ultimo “Specter At The Feast“, hanno saputo spaziare fra moltissimi generi differenti, pur rimanendo sempre all’interno del contenitore indie rock. Partiti come emuli dei Jesus And Mary Chains, ma con un’attitudine garage rock ben più pronunciata e inequivocabili riferimenti a Rolling Stones e alla neo psichedelia dei The Brian Joneston Massacre, i Nostri hanno poi saputo scrivere un capolavoro di “americana” come “Howl” (2005) per perdere l’orientamento nei due lavori successivi e, infine, recuperare mordente e credibilità con il penultimo “Beat The Devil’s Tattoo” (2010). Probabilmente, forte del buon riscontro di quest’ultimo, il trio formato da Peter Hayes, Robert Levon Been e Leah Shapiro (batterista che proprio sull’LP precedente ha preso il posto dello storico Nick Jago) ha preferito rischiare il minimo indispensabile e registrare un’opera che ricalca quasi gli stessi passi della sopracitata. Peccato che, a fronte di alcuni buoni spunti, lo faccia in modo meno convincente e con molta più routine.
“Specter At The Feast” si basa sull’alternanza fra brani piuttosto duri e ispidi e ballate che oscillano fra il folk dai toni pastello (“Lullaby”) e l’indie pop più smaccato (“Returning”, in cui fa capolino lo shoegaze, con tastiere simil psichedeliche e distorsioni di chitarra, elementi tuttavia sin troppo addomesticati che rendono la canzone un buco nell’acqua). I cambiamenti d’atmosfera fra un pezzo e l’altro sono stati fattori decisivi per la riuscita di “Beat The Devil’s Tattoo”, ma qui però paiono annacquati e davvero troppo, troppo di maniera. Così, fra riverberi di lento e torpido acid rock (“Fire Walker” e soprattutto “Some Kind Of Ghost”, un incrocio fra i Calexico e una band psych di ultima generazione, ad esempio gli Psychic Ills) ed episodi che fanno riferimento ai vecchi numi tutelari Stones e Mary Chains, qui in combutta nella pastorale “Sometimes The Light” (sembra una versione dilatata e anemica di “You Can’t Always Get What You Want”), i momenti migliori rimangono quelli più pesanti in cui i BRMC non si fanno scrupoli di premere sull’acceleratore: buona la carica garage di “Rival”, dall’intro “fuzzato”, ancor meglio l’hard martellante della successiva “Teenage Disease”, per poi arrivare verso la fine del cd ai brani migliori in assoluto; “Funny Games”, praticamente un apocrifo dei Queens Of The Stone Age, eppure realizzato in modo impeccabile, e “Sell It”, dove il terzetto mostra inedite sfumature post grunge.
L’onore è salvo, e il complesso di San Francisco dimostra che ha ancora qualcosa da dire. Un po’ poco, in realtà, e 4 – 5 tracce interessanti su 12 non bastano a far di “Specter At The Feast” un album riuscito. Purtroppo i BRMC le potenzialità le hanno sempre avute (degli incapaci non riuscirebbero mai e poi mai a comporre qualcosa come “Howl”), eppure spesso hanno peccato di auto – indulgenza e revivalismo spinto (siamo nel 2013, ma c’è un limite anche a quello). A questo punto siamo in attesa di veder come si comporteranno sulle assi del palco…
Stefano Masnaghetti
[youtube IrT8_QGQycQ nolink]